Sulle mie bacheche social si è scatenata una tempesta di rabbia e indignazione per il servizio "folkloristico" che mette in dubbio - in un modo certamente inqualificabile - l'utilità dello sforzo sia economico (risorse e tempo impiegato) sia l'effettiva sensatezza scientifica della missione. Pensavo che fosse una cosa passeggera, un piccolo innocente flame come ce ne sono tanti altri. E invece no. La cosa non è passeggera.
Naturalmente anch'io penso che il servizio sia una cialtronata totale e per primo, l'altro giorno, mi sono emozionato seguendo in diretta lo storico evento, l'ho commentato sui social e ho condiviso la gioia di tutti quanti.
Ma l'indignazione è una cosa seria. E non ho capito tutta questa ondata di odio. Sarà una cosa dei social, mi dicevo. Il servizio è davvero un bersaglio facile, immediato, ottimo per un po' di caciara. Poi ne ha scritto anche Wired, dando una sorta di legittimità alla polemica sterile e prendendo le difese della Scienza con la S maiuscola contro l'oscurantismo di stampo medievale. Ma perché indignarsi? Sparare a zero sul tg4, poi, non è così complicato. Che so, se la stessa cosa fosse finita - non diciamo il Wall Street Journal o l'Economist - ma sul tg di la7 o il tg1 o Repubblica il problema sarebbe stato più grave. Ma il tg4? Ma davvero c'è qualcuno che guarda questo tipo di informazione in buona fede (perdonate il gioco di parole) aspettandosi un'informazione competente ed equilibrata?
Secondo me chi si è arrabbiato sul serio sta soffiando sul fuoco sbagliato. Almeno ci mettesse un po' di ironia. Perché una volta seppellita l'ascia di guerra, il servizio è anche, a modo suo, divertente, buffo, cialtronescamente birbante: fa ridere. Di sicuro non un attacco - efficace - alla Scienza e alla Ricerca e all'Esplorazione Spaziale con tutte le maiuscole che volete.
Poi il dibattito su quanto è giusto spendere per l'esplorazione spaziale, invece che per risolvere i problemi del pianeta è una cosa seria che sta proprio a tutto un altro livello (disclosure: io sono MOLTO a favore dell'esplorazione spaziale e ci butterei MOLTI più soldi). Ma in questo caso non credo che il tg4 sia un interlocutore credibile.
Forse è più facile indignarsi per una Cazzata con la C maiuscola che non cambia la realtà dei fatti, piuttosto che cercare di capirli davvero, i fatti? Forse non stanno facendo tutti il gioco dell'oscurantismo, quello vero, indignandosi per questa roba da due soldi invece che leggersi - per esempio - i tanti articoli interessanti che spiegano quello che c'è da sapere sulla missione di Rosetta?
@freakycharlie
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venerdì 14 novembre 2014
#CometLanding: in difesa del TG4
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giovedì 9 ottobre 2014
Endgame, solo un libro o l'apocalisse in realtà aumentata?
Some of what I'm about to say is real information. And some of it is not.La fine sta per cominciare. Ma tranquilli, è solo un gioco. O qualcosa di più di un gioco. In realtà è anche un libro. E un contest. Forse non c'è poi da stare così tranquilli. Forse non è solo un gioco. Forse sarà l'operazione crossmediale definitiva. Anche se in fondo potrebbe trattarsi solo di un flop.
Procediamo con ordine. È uscito Endgame. La prima domanda a cui rispondere sarebbe: che cos'è Endgame?
- Un libro
- un videogioco in realtà aumentata
- un concorso con premio finale di 500.000 in (sì, esatto!) gettoni d’oro.
Il romanzo è scritto da James Frey insieme a Nils Johnson-Shelton ed è un pippone Young Adult a sfondo catastrofico e complottista con teenager assassini. Una specie di via di mezzo tra Il Pendolo di Facault e un film a caso sui supereroi. Abbastanza il mio genere.
Frey è la persona adatta perché sa come rendere fragili i confini tra realtà e finzione. O almeno gli è già successo. Il suo libro del 2003, Un Milione di Piccoli Pezzi (consigliato) venne presentato dalla stampa americana come le memorie del soggiorno in clinica di un alcolizzato in riabilitazione. Il tutto raccontato in prima persona in uno stile diretto come un pugno nello stomaco. Davvero un libro interessante. Estremo. Impossibile da ignorare. Ma pieno. Pieno anche di quelle cazzo di frasi brevissime che quasi ti trasmettono spasmi nervosi e odio. A non tutti piace.
Oprah ha intervistato Frey in una leggendaria puntata del suo show in cui si è dimostrata offesissima perché aveva contribuito al successo del libro presentandolo come una storia vera e invece si trattava, per la maggior parte, di pura finzione. Orrore orrore. Si è sentita truffata, e con lei milioni di telespettatori pronti a odiare e maledire il cattivo Frey. Il bugiardo Frey, manipolatore della povera Oprah in buona fede. Riuscite a vedere la sottile ironia del tutto?
A parte che davvero non so quanto la cosa sia spontanea o meno (qui un video dove i due si incontrano anni dopo e riparlano della vicenda ) però ha certamente quel fascino tutto della nostra epoca quando non si capisce se una cosa è vera o finta. I fake (o gli hoax) sono un sottogenere tutto particolare, ma quello di Un Milione di Piccoli Pezzi non è stato proprio un fake. Se mai una mistificazione, una bugia a fin di bene. Almeno il bene delle tasche di Frey: il libro è diventato un caso letterario anche per la sua vicenda mediatica. Ciò non toglie che è un gran bel libro. Ma i media hanno questo potere. Si chiama mistificazione. Ma per tornare a Endgame, credo che un po' di mistificazione sia più che legittima quando è fatta a fin di bene.
E con buona pace di Kant, l'intrattenimento è una cosa fottutamente seria e qua oltre a Frey ci sono in ballo i tizi di Ingress e, quindi, Google. Si tratta di giocare al complotto avendo come Dungeon Master una delle corporation con le implicazioni più distopiche che esista. Forse la cosa più eccitante per i nerd del globo dai tempi di X-Files. Purtroppo l'applicazione di realtà aumentata non è stata lanciata insieme al libro ma arriverà più avanti. Oprah in questo caso non si è però indignata.
Per il momento la prima parte del "gioco", oltre al puzzle nascosto nel libro, si trova sul sito ancientsocieties.com, in cui appare per la prima volta anche Stella (Haley Webb), il personaggio che accompagnerà la storia di Endgame nei suoi risvolti multimediali per i prossimi anni (sono previsti altri due libri e altri due contest).
Le ambizioni sono alte e la macchina messa in moto davvero cazzuta. Endgame vuole essere il concept d'intrattenimento definitivo, azzardando il più ambizioso tra gli ibridi, quello tra libro e videogioco. Quello che Frey e Google e un po' di altra gente stanno offrendo è un immersione mediatica che infrange le barriere tra mondo reale, mondo virtuale e opera di finzione. Un gioco di ruolo su molti livelli davvero sofisticato e, soprattutto, insidioso da gestire per i suoi creatori.
Frammenti dell'universo di Endgame sono sparsi in giro per internet (canali youtube, pagine web, account twitter misteriosi) e alcuni di essi sono attivi da diversi mesi, senza che nulla avrebbe potuto connetterli direttamente all'operazione in precedenza. Ma ora i puntini verranno uniti. I pezzi del puzzle accostati. La caccia al tesoro è iniziata.
Le ultime news e un breve riassunto del tutto lo trovate in questo articolo di The Verge.
Se anche voi pensate di giocare o semplicemente seguire la vicenda di Endgame scrivetemi cosa ne pensate qua sotto o su twitter o anche su Google Plus.
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venerdì 11 luglio 2014
Un problema di linguaggio
Forse abbiamo un problema di linguaggio. O di linguaggi. Se i giornali chiudono ma anche l'informazione online non è messa molto bene – per non parlare dell’industria culturale nostrana nel suo complesso - significa che il problema è più profondo. E va al di là di che cosa siano, o non siano, il giornalismo o la cultura. Il problema si nasconde spesso nei tecnicismi linguistici, che in parte riflettono le regole non scritte di ciascuna nicchia di addetti ai lavori. Il problema è soprattutto una questione di comunicazione.
Per usare un caso concreto, prendo spunto da questo tweet di @Tecnoetica:
Il tweet scherza bonariamente sul linguaggio utilizzato durante l'intervento di uno dei partecipanti della conferenza #LucisulLavoro2014. Non ero presente all'evento, ho solo seguito distrattamente il flusso relativo all'hashtag su twitter: nell'intervento in questione si parlava di maker, stampa 3d e nuovi modelli produttivi. Ma, lasciando stare i contenuti specifici, ho scelto questo tweet perché esprime alla perfezone i problemi che ci sono oggi in Italia quando si vuole parlare di innovazione. Si possono individuare tre livelli della questione:
E in tutto questo i giornali, e i giornalisti, hanno le loro responsabilità, come evidenziano Tagliablog e Mysocialweb. I giornalisti, infatti, avrebbero dovuto essere non solo i guardiani dei fatti, ma anche i vigili urbani dei significati, e non solo gli uffici stampa di politici e gruppi di interesse. Se abbiamo un problema di linguaggio, è anche perché non abbiamo saputo investire in politiche culturali decenti. La lingua italiana è stata come esaurita da una dozzinalità imperante. E l'informazione online non ha che massimizzato tutto questo. Il risultato è che oggi l’innovazione si pensa in inglese, e su questo c’è poco da fare.
Tornando alla questione dei maker, che secondo me rappresentano una bellissima unione tra innovazione della tecnologia e socializzazione dei processi produttivi: abbiamo gli slogan ma ci mancano i contenuti. Bisogna ripartire dalla scuola e dall'educazione dei più piccoli, nonché da modelli di business sostenibili e non fatti di belle speranze. L'unica cosa sicura, oggi, è che slogan e anglismi non impressionano più nessuno. Non servono più specialisti dell'informazione, ma comunicatori, anzi, usando proprio un anglismo: evangelist. Affinché vincano le buone idee, bisogna almeno sapere come comunicarle.
Per usare un caso concreto, prendo spunto da questo tweet di @Tecnoetica:
#LucisulLavoro2014 il Maker può superare il commercial divide tramite il crowdfunding o forme di sharing economy. Mi sembra evidente
— Davide Bennato (@Tecnoetica) July 10, 2014
Il tweet scherza bonariamente sul linguaggio utilizzato durante l'intervento di uno dei partecipanti della conferenza #LucisulLavoro2014. Non ero presente all'evento, ho solo seguito distrattamente il flusso relativo all'hashtag su twitter: nell'intervento in questione si parlava di maker, stampa 3d e nuovi modelli produttivi. Ma, lasciando stare i contenuti specifici, ho scelto questo tweet perché esprime alla perfezone i problemi che ci sono oggi in Italia quando si vuole parlare di innovazione. Si possono individuare tre livelli della questione:
- gli specialisti hanno il loro linguaggio, che i "profani" non capiscono;
- gli "esperti" (ed è una tendenza che si trova tra la nostra intellighenzia rispetto, per esempio, alla cultura anglosassone, tendono a barricarsi dietro un linguaggio complicato) presentandosi come custodi della conoscenza, piuttosto che come public relation men della stessa;
- la lingua italiana, da sola, non basta a descrivere il mondo che ci circonda. Ciò significa che gli esperti fanno prima a prendere in prestito parole dall'inglese, piuttosto che inventarsi termini tecnici equivalenti in italiano;
E in tutto questo i giornali, e i giornalisti, hanno le loro responsabilità, come evidenziano Tagliablog e Mysocialweb. I giornalisti, infatti, avrebbero dovuto essere non solo i guardiani dei fatti, ma anche i vigili urbani dei significati, e non solo gli uffici stampa di politici e gruppi di interesse. Se abbiamo un problema di linguaggio, è anche perché non abbiamo saputo investire in politiche culturali decenti. La lingua italiana è stata come esaurita da una dozzinalità imperante. E l'informazione online non ha che massimizzato tutto questo. Il risultato è che oggi l’innovazione si pensa in inglese, e su questo c’è poco da fare.
Tornando alla questione dei maker, che secondo me rappresentano una bellissima unione tra innovazione della tecnologia e socializzazione dei processi produttivi: abbiamo gli slogan ma ci mancano i contenuti. Bisogna ripartire dalla scuola e dall'educazione dei più piccoli, nonché da modelli di business sostenibili e non fatti di belle speranze. L'unica cosa sicura, oggi, è che slogan e anglismi non impressionano più nessuno. Non servono più specialisti dell'informazione, ma comunicatori, anzi, usando proprio un anglismo: evangelist. Affinché vincano le buone idee, bisogna almeno sapere come comunicarle.
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giovedì 12 settembre 2013
Perché si dice "villaggio globale"?
In questi anni di tumulti digitali e superaziende alla ricerca della nuova rivoluzione nel campo dei media, spesso si sente l'espressione "villaggio globale" per indicare la condizione attuale del nostro mondo postmoderno fittamente interconnesso.
Come in un villaggio, infatti, tutti sanno tutto di tutti, così le nostre reti di comunicazione sono in grado di trasportare le informazioni da una parte all'altra del globo a una velocità approssimabile a quella della luce. Internet è profondamente pettegolo e totalmente responsabile dello stravolgimento del nostro concetto di prossimità: prossimo non è più sinonimo di vicino, poiché la comunicazione a distanza in tempo reale ha decisamente contratto le distanze.
L'espressione di "villaggio globale" si deve a Marshall McLuhan, che la introdusse già a partire dai suoi libri di inizio anni '60 (The Gutenberg Galaxy, 1962, e Understanding Media, 1964) per poi svilupparla in altri titoli, come War and Peace in the Global Village (1968) e il postumo The Global Village: Transformations in World Life and Media in the 21st Century (1989).
A partire dal suo mantra il medium è il messaggio, è ben nota la capacità di McLuhan di inventare formule retoriche in grado di lavorare come sonde esplorative per capire la galassia dei nostri sistemi di comunicazione. Anche se leggermente demodée, la metafora del "villaggio globale" è ancora ampiamente utilizzata. L'origine dell'espressione, ci ricorda Eric McLuhan, figlio di Marshall, si deve a una rielaborazione di concetti già presenti in Joyce e Windham Lewis, in particolare quest'ultimo scrisse in America and The Cosmic Man (1949): "the earth has become one big village, with telephones laid on from one end to the other, and air transport, both speedy and safe..."
Lewis e McLuhan erano amici e probabilmente discussero insieme di questi argomenti. Tuttavia lo sfondo teorico in cui si inquadra la metafora di villaggio globale è decisamente mcluhaniano.
"Villagio globale" è dunque una fortunata etichetta per indicare la contrazione della comunità umana dovuta all'azione avvicinatrice dei media elettrici. Questo processo inizia con l'invenzione del telegrafo e continua fino ai giorni nostri con l'evoluzione delle reti globali di comunicazione e l'uso massivo di social network.
Anche se la metafora è di comune utilizzo, il suo significato ha delle profonde conseguenze filosofiche. Per comprendere queste conseguenze è necessario fare un passo indietro di un paio di millenni fino all'Aristotele della Politica.
In questo libro, il filosofo greco cerca di inquadrare i principi che regolano il comportamento delle comunità umane, indagandone forme e modalità. Aristotele ha una preferenza per la forma organizzativa della città (che in greco si dice, appunto, polis), la più perfetta delle comunità umane.
La famiglia è la prima comunità umana che, per natura, si costituisce per la vita di tutti i giorni. Il villaggio, derivato dall’unione di più famiglie, sorge per "soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero". E, infine:
"La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama livello di autosufficienza"
Questo attributo di autosufficienza è molto importante:
"Nell’ordine naturale la città precede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede necessariamente la parte, perché tolto il tutto, non ci sarà più né piede né mano, se non per omonimia. Dunque è chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo perché, se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti"
Il villaggio globale è dunque una nuova forma estesa che caratterizza la comunità umana. La teoria aristotelica punta sull'indipendenza della forma-città, mentre il villaggio è visto come una comunità imperfetta proprio in quanto non autosufficiente. Ma è proprio il processo di globalizzazione che permette di rivalutare positivamente (a differenza di Aristotele) l'interdipendenza delle comunità umane l'una dall'altra.
La città è stata per parecchi secoli la massima espressione in cui si organizzavano le comunità umane. Ma la forma-città si è ora come sciolta nel mare delle comunicazione istantanea e della velocità dei trasporti. La metafora del "villaggio globale" rappresenta dunque l'abbandono di un modo di concepire le comunità umane che, come abbiamo visto, risale fino all'epoca classica della filosofia greca.
Carlo Peroni
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mercoledì 4 settembre 2013
Una media company per il ventunesimo secolo. Il caso betaworks
Qualche giorno fa, ho scritto di Dots, un gioco per iOS e Android davvero minimale ma estremamente curato. L'applicazione mi ha colpito per svariate ragioni, oltre alla sua indubbia piacevolezza videoludica.
Ho iniziato, dunque, a chiedermi chi ci potesse essere dietro qualcosa di così ben progettato. Dopo una breve ricerca ho trovato non solo la risposta alla mia domanda, ma qualcosa di più.
Quello che ho trovato è un'idea, un progetto, addirittura una visione inedita in spirito tecnocapitalista del mondo online e di quello offline.
A new medium company
Dots è stato sviluppato da betaworks, compagnia tech con sede a New York. Betaworks ha un claim affascinante: a new medium company (che poi da altre parti diventa un altrettanto accattivante a company for builders). La compagnia, una specie di ibrido tra fondo di investimento e incubatrice di start-up, si mostra sapientemente al mondo esterno come un grosso ed eclettico studio web.
Il gruppo che sta dietro a Dots in realtà si pone come ambizioso obbiettivo quello di ridefinire dalle fondamenta il concetto di media company per adattarlo alle esigenze e alle dinamiche del 21esimo secolo.
Siamo a New York, non a Los Angeles, la cura per i dettagli lo dimostra. Se volete sapere di un'altra figura di primo piano della scena tech newyorkese leggetevi questo bel pezzo di Manuel Peruzzo sul fondatore di Tumblr, David Karp. Come nota Peruzzo, le webcompany della grande mela stanno assumendo uno stile peculiare, più raffinato e sfaccettato rispetto alla mitologia libertaria e vagamente utopistica della Silicon Valley californiana. Di Tumblr, infatti, betaworks è stata una tra i primi finanziatori, anche se ha ceduto le sue quote nel contesto dell'acquisizione di Yahoo.
I brillanti dipendenti di betaworks sono al lavoro su molteplici fronti. Per fare alcuni esempi, oltre a Dots e a Tumblr, ci sono Giphy, un motore di ricerca per GIF; Poncho, un'applicazione per le previsioni del tempo e Telecast che raggruppa i video di YouTube in base agli interessi dell'utente.
Poi c'è Tapestry, un'applicazione per creare testi su Ipad; Instapaper, che sarebbe un cosiddetto read-it-later, ovvero un tool per salvare contenuti di cui disporre offline. Per non parlare di Digg, un aggregatore di news che ha avuto il suo periodo di notorietà. Passato l'hype è stato comprato per 500,000$ dal gruppo che l'ha prontamente utilizzato come testa di ponte per entrare nell'arena degli RSS reader, apertasi dopo che un gigante come Google ha deciso di uscire di scena.
Secondo il CEO, John Borthwick, il futuro del mercato dell'informazione si snoda attraverso quattro principali esigenze del lettore/fruitore: discovery, saving, slow reading e fast reading. Betaworks sta cercando di assumere sempre più rilevanza strategica per soddisfare ognuno di questi aspetti. Non dimentichiamoci poi che tra i prodotti fa la sua comparsa anche bit.ly, servizio di url shortening che permette di monitorare la diffusione dei vari contenuti postati dal creatore degli stessi.
Senza troppi clamori betaworks si è dunque guadagnata pezzo per pezzo un ruolo importante nella gestione, condivisione e diffusione di news e contenuti di vario genere ( a proposito del ruolo editoriale del gruppo sul web, questo articolo di mashable mi è piaciuto tantissimo anche per come dipinge il ciclo di vita delle news online: The Company That's Buying the Online News Ecosystem).
Siamo a New York, non a Los Angeles, la cura per i dettagli lo dimostra. Se volete sapere di un'altra figura di primo piano della scena tech newyorkese leggetevi questo bel pezzo di Manuel Peruzzo sul fondatore di Tumblr, David Karp. Come nota Peruzzo, le webcompany della grande mela stanno assumendo uno stile peculiare, più raffinato e sfaccettato rispetto alla mitologia libertaria e vagamente utopistica della Silicon Valley californiana. Di Tumblr, infatti, betaworks è stata una tra i primi finanziatori, anche se ha ceduto le sue quote nel contesto dell'acquisizione di Yahoo.
I brillanti dipendenti di betaworks sono al lavoro su molteplici fronti. Per fare alcuni esempi, oltre a Dots e a Tumblr, ci sono Giphy, un motore di ricerca per GIF; Poncho, un'applicazione per le previsioni del tempo e Telecast che raggruppa i video di YouTube in base agli interessi dell'utente.
Poi c'è Tapestry, un'applicazione per creare testi su Ipad; Instapaper, che sarebbe un cosiddetto read-it-later, ovvero un tool per salvare contenuti di cui disporre offline. Per non parlare di Digg, un aggregatore di news che ha avuto il suo periodo di notorietà. Passato l'hype è stato comprato per 500,000$ dal gruppo che l'ha prontamente utilizzato come testa di ponte per entrare nell'arena degli RSS reader, apertasi dopo che un gigante come Google ha deciso di uscire di scena.
Secondo il CEO, John Borthwick, il futuro del mercato dell'informazione si snoda attraverso quattro principali esigenze del lettore/fruitore: discovery, saving, slow reading e fast reading. Betaworks sta cercando di assumere sempre più rilevanza strategica per soddisfare ognuno di questi aspetti. Non dimentichiamoci poi che tra i prodotti fa la sua comparsa anche bit.ly, servizio di url shortening che permette di monitorare la diffusione dei vari contenuti postati dal creatore degli stessi.
Senza troppi clamori betaworks si è dunque guadagnata pezzo per pezzo un ruolo importante nella gestione, condivisione e diffusione di news e contenuti di vario genere ( a proposito del ruolo editoriale del gruppo sul web, questo articolo di mashable mi è piaciuto tantissimo anche per come dipinge il ciclo di vita delle news online: The Company That's Buying the Online News Ecosystem).
Crea, compra, finanzia.
Mentre colossi come facebook hanno un corebusiness ben definito, betaworks presenta un insieme di servizi autonomi l'uno dall'altro. Pur non rappresentando un ecosistema integrato come quello di Google, ogni prodotto di betaworks ha il suo ruolo strategico per il gruppo e la compagnia è come un puzzle dove ogni pezzo si incastra perfettamente.
Fondata nel 2008 la compagnia si presenta così nel database di Techcrunch: "A tightly linked network of ideas, people, capital, products and data brought together in imaginative ways to build out a more connected world". Il tono è leggermente entusiastico ma i contenuti sono accattivanti. Si va anche più nel concreto, trovando risposte a domande come: quanto investe betaworks? Secondo quali modalità e criteri? Che tipo di persone cercano?
L'investimento tipico si aggira tra i 150,000-200,000$. L'azienda in cui si investe deve essere una start-up ad alto contenuto di innovazione con un prototipo realmente funzionante del proprio tool/servizio. Nessuna idea o progetto in astratto: l'azienda sottolinea di essere una powerpoint-free zone.
In una sua dichiarazione di intenti l'azienda afferma che il tipo di persona che cerca è qualcuno interessato a sviluppare più idee, piuttosto che portarne avanti, per anni, una soltanto: "We attract the kind of people who could start their own company, but they don’t necessarily want to run a company. They’d rather be the co-founder of eight things than tied down for years as the sole founder of one. They’d rather build".
Si tratta dunque di una realtà complessa, dinamica e sfaccettata. Per il CEO di betaworks andare a fare la spesa significa comprare la start-up che più gli aggrada in quel periodo. The Verge riassume la strategia di business di betaworks in build, buy, invest.
Il blog dell'azienda a proposito afferma che l'azienda crea, finanzia e acquisisce altre compagnie più piccole. Ognuna di queste tre attività permette all'azienda di sperimentare ampliando il proprio network. Nella sua -breve- storia, betaworks ha finanziato, acquisito o creato quasi 100 compagnie più piccole.
Fondata nel 2008 la compagnia si presenta così nel database di Techcrunch: "A tightly linked network of ideas, people, capital, products and data brought together in imaginative ways to build out a more connected world". Il tono è leggermente entusiastico ma i contenuti sono accattivanti. Si va anche più nel concreto, trovando risposte a domande come: quanto investe betaworks? Secondo quali modalità e criteri? Che tipo di persone cercano?
L'investimento tipico si aggira tra i 150,000-200,000$. L'azienda in cui si investe deve essere una start-up ad alto contenuto di innovazione con un prototipo realmente funzionante del proprio tool/servizio. Nessuna idea o progetto in astratto: l'azienda sottolinea di essere una powerpoint-free zone.
In una sua dichiarazione di intenti l'azienda afferma che il tipo di persona che cerca è qualcuno interessato a sviluppare più idee, piuttosto che portarne avanti, per anni, una soltanto: "We attract the kind of people who could start their own company, but they don’t necessarily want to run a company. They’d rather be the co-founder of eight things than tied down for years as the sole founder of one. They’d rather build".
Si tratta dunque di una realtà complessa, dinamica e sfaccettata. Per il CEO di betaworks andare a fare la spesa significa comprare la start-up che più gli aggrada in quel periodo. The Verge riassume la strategia di business di betaworks in build, buy, invest.
Il blog dell'azienda a proposito afferma che l'azienda crea, finanzia e acquisisce altre compagnie più piccole. Ognuna di queste tre attività permette all'azienda di sperimentare ampliando il proprio network. Nella sua -breve- storia, betaworks ha finanziato, acquisito o creato quasi 100 compagnie più piccole.
Un CEO che ci sa fare
La politica di betaworks non esclude, ma anzi mette preventivamente in conto possibili fallimenti, che devono essere però limitati e metabolizzati velocemente. Si lavora su molteplici fronti, non uno soltanto, e non si ha paura di tagliare i rami secchi, abbandonando i progetti che non funzionano. Betaworks può permettersi di uccidere un proprio tool, poiché i suoi investimenti sono molteplici e non solo vincolati ad un unico prodotto.
Betaworks, come è cosa comune per i grossi nomi del web, ha portato avanti una serie di importanti acquisizioni volte più a incamerare know-how piuttosto che a cercare di monetizzare direttamente l'investimento. Tutto ciò ha reso l'azienda uno dei protagonisti della scena tech newyorchese e non solo. Betaworks è una compagnia al centro della app revolution che si annovera tra le aziende di innovazione che stanno aspettando il proprio momento di ribalta nel ciclico avvicendarsi dei top player del settore. Di sicuro propone un modello di business allo stesso tempo solido e innovativo.
Celebri soni diventate le lettere di inizio anno agli azionisti, scritte dal CEO, in cui viene eloquentemente presentato il modo in cui l'azienda vede se stessa e il campo in cui opera. Le lettere sono disponibili e rappresentano una lettura interessante per chi è interessato all'evoluzione del mercato dei servizi online.
Betaworks, come è cosa comune per i grossi nomi del web, ha portato avanti una serie di importanti acquisizioni volte più a incamerare know-how piuttosto che a cercare di monetizzare direttamente l'investimento. Tutto ciò ha reso l'azienda uno dei protagonisti della scena tech newyorchese e non solo. Betaworks è una compagnia al centro della app revolution che si annovera tra le aziende di innovazione che stanno aspettando il proprio momento di ribalta nel ciclico avvicendarsi dei top player del settore. Di sicuro propone un modello di business allo stesso tempo solido e innovativo.
Celebri soni diventate le lettere di inizio anno agli azionisti, scritte dal CEO, in cui viene eloquentemente presentato il modo in cui l'azienda vede se stessa e il campo in cui opera. Le lettere sono disponibili e rappresentano una lettura interessante per chi è interessato all'evoluzione del mercato dei servizi online.
5. Un modello da imitare?
Le basi ci sono, il capitale anche. Ma c'è, soprattutto, un'idea, una visione di insieme che vede Betaworks giocare un'importante ruolo nel ridefinire ciò che si può fare della tecnologia.
Ma potrebbe essere la scena tech di New York un buon modello per le realtà italiane che vogliono investire in tecnologia e servizi per il web?
Città come Milano potrebbero rappresentare un buon terreno di coltura, dato il buon numero di start-up attive. Sia mai che qualche investitore avesse l'illuminazione di raggrupparne alcune. Magari si potrebbe tirar fuori qualche opportunità di business facendo confluire una manciata di realtà interessanti. Come betaworks ha dimostrato, una buona acquisizione può dimostrarsi più geniale di un'idea partorita in proprio.
Forse il quadro che ho dipinto è fin troppo roseo e sopravvaluto il buon esito di una possibile applicazione di un tale modello nel contesto del nostro paese. Tuttavia, betaworks mi sembra portatrice di un nuovo tipo di approccio. Certo un approccio di stampo capitalista, ma di un capitalismo reso forse un poco più umano per l'essersi totalmente immerso nell'oceano della comunicazione digitale.
Forse il quadro che ho dipinto è fin troppo roseo e sopravvaluto il buon esito di una possibile applicazione di un tale modello nel contesto del nostro paese. Tuttavia, betaworks mi sembra portatrice di un nuovo tipo di approccio. Certo un approccio di stampo capitalista, ma di un capitalismo reso forse un poco più umano per l'essersi totalmente immerso nell'oceano della comunicazione digitale.
Carlo Peroni
@freakycharlie
PS: Tutti i link sparsi nell'articolo li trovate meglio ordinati (più qualche aggiunta) nella lista appositamente creata grazie al nuovo e bellissimo servizio offerto da urli.st - dateci un occhio se avete segnalibri e preferiti vari sparsi in giro da sistemare e condividere. Io l'ho trovato davvero utilissimo!
PS: Tutti i link sparsi nell'articolo li trovate meglio ordinati (più qualche aggiunta) nella lista appositamente creata grazie al nuovo e bellissimo servizio offerto da urli.st - dateci un occhio se avete segnalibri e preferiti vari sparsi in giro da sistemare e condividere. Io l'ho trovato davvero utilissimo!
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martedì 27 agosto 2013
Un'ossessione a puntini. Recensione di Dots
Da qualche giorno Dots è arrivato su Android e già si è aggiunto alla lista di cose che tentano la mia debole volontà di procrastinatore seriale. Questa volta, però, la responsabilità è degli sviluppatori di Betaworks che hanno sapientemente azzeccato colori, suoni e un'interfaccia impeccabile. Il tutto si integra perfettamente in un ambiente sgombro e pulito che è un vero e proprio giardino zen rispetto alla media decisamente cheap degli altri titoli per mobile.
Ecco ben 5 motivi che rendono Dots particolarmente interessante:
- è gratuito (senza neanche fastidiose pubblicità all'interno)
- ha una grafica decisamente minimale
- crea immediata dipendenza
- la parte degli effetti sonori è davvero ottima
- il gameplay sembra un quadro di Damien Hirst
Lo scopo è semplice e non rappresenta nulla di radicalmente nuovo: unire in verticale e orizzonatale i puntini di uno stesso colore disposti nella matrice di gioco, facendoli scomparire e guadagnando punti a seconda di quante connessioni sono state effettuate. Disponibile su iOS fin già da Marzo 2013, Dots ha fatto la sua comparsa per Android lo scorso 15 agosto. Per l'occasione Betaworks, ha introdotto una nuova modalità di gioco, senza limiti di tempo ma a numero limitato di mosse, che si aggiunge a quella già esistente che prevede micro round di 60 secondi.
La nuova modalità permette di meglio entrare nella filosofia del gioco, ampliandone anche il possibile target oltre ai giocatori compulsivi. Dots è un prodotto semplice, curato in ogni dettaglio, con una precisa idea di pulizia ed essenzialità nel design che si riflette anche nel gameplay.
Le due modalità di gioco si presentano come due approcci completamente diversi al mondo di Dots: da una parte sono richiesti istinto e velocità, dall'altra, invece, riflessione e strategia. Nella sfida a tempo bisogna puntare all'abbondanza, ma senza trascurare la possibilità di punti extra attraverso le combo (che si attivano chiudendo le figure), nella sfida a mosse, attraverso un'attenta economia delle scelte, sono fondamentali un calcolo ben ragionato e una certa attenzione alla visione di insieme.
Se poi ci giocate, ricordatevi di chiudere i quadrati, che i punti si fanno così! Se volete c'è chi ha scritto anche una vera e propria guida di strategia (è pre-update, ma i consigli ben si applicano anche alla versione aggiornata).
I meccanismi di premi e ricompense stuzzicano il sistema limbico del giocatore, già ipnotizzato dall'essenzialità ordinata delle sfere colorate. Inoltre la possibilità di acquisire abilità speciali attraverso i punti conquistati rende l'esperienza di gioco ancora più varia e stimolante (i punti si possono acquistare anche in-app con soldi veri, ma scegliere di non farlo non pregiudica assolutamente l'esperienza di gioco, poiché le abilità speciali sono facilmente ottenibili senza dover fare nessun acquisto, basta giocare).
Una curiosità è che il gioco è nato praticamente per caso. Patrick Moberg, sviluppatore di Betawork, non stava lavorando a nessun progetto per il mercato dei giochi, ma stava sperimentando diverse modalità di interfaccia in ambiente iOS per un'altra applicazione della compagnia, Tapestry, quando ha intuito le potenzialità per quello che poi sarebbe diventato Dots. Betaworks non ha dunque esitato a prendere la palla al balzo e far uscire la sua prima applicazione videoludica.
Un po' Tetris, un po' Puzzle Bubble, un po' Candy Crash, Dots presenta un'esperienza piacevole e divertente che rischierebbe semplicemente, per i soggetti più sensibili, di diventare un disturbo ossessivo-compulsivo (l'applicazione ha un insaziabile appetito per la carica della batteria, sicuramente per scoraggiare possibili dipendenze).
Tra le due modalità la mia preferita è senza dubbio quella a numero di mosse, appena introdotta, un vero rompicapo che stuzzica un certo modo logico e geometrico di ragionare, senza dover star dietro alla compulsiva frenesia dei 60 secondi. Dots è a tutti gli effetti un gioco che sfrutta appieno le possibilità videoludiche di smartphone e tablet poiché l'interfaccia tattile, almeno sul mio S3, risultà davvero impeccabile e perfettamente sincronizzata con gli ipnotici effetti sonori, che sviluppano sequenze di note in sincronia con i collegamenti effettuati, alzando il pitch e ricompensando acusticamente i buoni collegamenti. Dots è, dunque, una piacevole micro esperienza videoludica, nonché una buona scusa per astrarvi un poco dalla fastidiosa realtà che probabilmente vi circonda.
Carlo Peroni
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martedì 23 luglio 2013
Una questione di supporti. A proposito di cartaceo e digitale
L'altro pomeriggio non avevo molto da fare (o meglio, avevo da fare ma sono essenzialmente pigro e procrastinatore) così riflettevo sulla spinosa questione eBook/cartaceo. Pur essendo di mio abbastanza "integrato" e favorevole all'innovazione (di solito a prescindere), negli ultimi tempi ho maturato la convinzione che il buon vecchio libro stampato non sia, in tutto e per tutto, sostituibile con la sua controparte digitale.
1. I supporti non sono neutrali
Mi spiego attraverso due considerazioni:
- testi digitali e testi cartacei svolgono funzioni differenti, anche se in parte sovrapponibili;
- il classico libro stampato sta attraversando una ridefinizione del suo ruolo all'interno di una ecologia dei supporti culturali che è venuta facendosi via via più complessa.
Anche se il mercato degli ebook su suolo italiano è ancora in piccole percentuali, ma in costante crescita, il punto è che la parola stampata su carta sta assumendo un ruolo diverso ed è spinta a questo proprio perché "insidiata" dai contenuti free del Web. Con l'avvento della parola su schermo, non ha più senso, molto banalmente, stampare tutto e da ciò ne è seguita la crisi dell'editoria (soprattutto per quanto riguarda giornali e riviste).
Prima ancora dell'inchiostro elettronico e del formato ePub (che è poi figlio dell'HTML), c'erano gli lcd dei laptop ma soprattutto, adesso, ci sono gli schermi interattivi degli smartphone e dei tablet. Internet, sostituendo i quotidiani, ha rilevato queste due categorie giornalistiche:
- notizie/informazioni, ovvero la funzione oggettiva di rendere noti i fatti all'opinione pubblica;
- blogging/opinione/reportage, ovvero la funzione soggettiva di commento in relazione ai fatti, per farli assimilare dall'opinione pubblica.
I prodotti che comprendono il racconto di finzione e la saggistica per ora sembrano aver resistito alla completa digitalizzazione, poiché i loro schemi sono ancora tipicamente cartacei e, quando li troviamo in digitale, sono spesso delle semplici traduzioni di supporto e non format nativi.
2. La parola stampata è l'unico posto dove le informazioni stanno ferme
I generi - i format - sono già cambiati e prima la funzione che era propria della parola stampata, per quando riguardo gli ambiti di news e opinione, è già stata trasferita al web alle app. Tutto questo ha anche conseguenze positive nel senso che la funzione della parola stampata si è come liberata da un certo dovere di coprire adeguatamente l'attualità fugace del presente immediato. Esattamente come quando la fotografia ha liberato la pittura dalla sua funzione di rappresentazione realistica.
Tutto questo ha stimolato il dibattito riguardo al ruolo dell’informazione nella società contemporanea e la velocità attraverso cui viene gestita. Eppure in questo contesto in continuo mutamento in cui l’informazione si muove alla velocità della luce per tutto il globo, spesso ci si dimentica che il libro stampato è appunto l’unico posto dove la parola si ferma e le informazioni si cristallizzano per essere più facilmente interpretate. In questo processo di accelerazione, il mondo della cultura e quello dell’intrattenimento sono profondamente cambiati. E di conseguenza è cambiato anche il mondo dell’editoria. Non bisogna però dimenticare che il format del quotidiano cartaceo e la sua capacità di coprire l'attualità creando, di fatto, un'opinione pubblica è stato reso possibile da un'altra rivoluzione nel mondo dei mezzi di comunicazione: quella del telegrafo e della sua capacità di trasmettere messaggi e notizie a una nuova scala di velocità.
3. Libri ed editori
Anche oggi un testo viene pensato, da chi lo scrive, per il suo supporto. Ogni scrittura ha un suo format, una sua destinazione che ne influenza lo schema e lo stile. Ma scrivere un libro sapendo che sarà soltanto digitale permette paradossalmente una maggiore libertà rispetto alla "rigidità" del testo stampato.
Il mondo dell’editoria è un mondo complicato. La differenza la fanno editori ed editor. Questi sono i ruoli fondamentali di una casa editrice. L’editore, quello vero, è uno strano personaggio che compie delle complicate acrobazie per rimanere in equilibrio, come sospeso, tra il mondo della cultura e quello del prodotto commerciale di intrattenimento. Di fondamentale importanza poi è il lavoro svolto dall’editor, che rivede il testo insieme all’autore per trovare i punti deboli e dare al tutto una degna proporzione di insieme.
La scelta di un testo da parte dell'editore e la revisione dell'editor sono i due servizi che permettono a un libro di uscire degnamente sul mercato. Ci sono ottimi esempi nel caso delle autopubblicazioni, ma sono ancora eccezioni. Sono convinto, infatti, che nel campo degli ebook il meglio debba ancora venire. Siamo ancora nella fase in cui nel nuovo media vengono tradotti i contenuti che stavano in quello precedente. E il meccanismo del manoscritto-editor-libro pubblicato è un modello che viene dal cartaceo.
L’editore, oggi, non può competere nella guerra della velocità, ma deve concentrarsi sul valore dei testi. In un mondo dove chiunque, se ne ha tempo e voglia, ha la possibilità di produrre e vendere il suo romanzo attraverso i canali digitali, il ruolo dell’editore è quello di selezionare e, ancora, selezionare.
Il processo che porta dalla scrittura alla pubblicazione di un romanzo o un saggio è spesso un percorso dai tempi decisamente lunghi rispetto alla velocità cui ci si riferiva poco sopra. L’editore deve essere visto dunque come colui che rallenta il flusso informativo, selezionando le opere che hanno le caratteristiche di essere pubblicate.
Le occasioni per leggere di sicuro non sono diminuite ma, anzi, si sono moltiplicate da quando l’accessibilità offerta dal Web ha permesso agli utenti di costruire dei percorsi di lettura personalizzati attraverso blog e social network. Cartaceo e digitale non sono in contraddizione, ma semplicemente le due facce di una stessa medaglia.
Carlo Peroni
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martedì 16 luglio 2013
Datemi il mio esoscheletro
Data la mia passione per gli esoscheletri e il sogno, un giorno, di essere così confortevolmente protetto dal mondo esterno infilandomi in uno di questi aggeggi, non potevo non farvi partecipi della notizia della commercializzazione di un modello costruito da, manco a dirlo, una azienda giapponese.
Il modello di esoscheletro in questione si chiama Powered Jacket MK3 ed è prodotto dalla Sagawa Electronics. Pesa 25kg per 2.25m di altezza. L'azienda ha pubblicato un video su YouTube che illustra le caratteristiche del prodotto. Il filmato è presentato da un surreale Mister Scarface Santaro in compagnia di una graziosa giovane in abiti scolastici che prova il Powered Jacket MK3.
L'esoscheletro costa all'incirca 120.000€, ma da quello che ho capito la spesa serve a finanziare le ricerche successive. Gli esemplari in vendita sono 5. Il costo non è eccessivo, sempre meno di una piccola isola o di un viaggio spaziale, se siete i tipi da potervi permettere questo genere di cose.
Il dispositivo, in realtà, non sembra fare poi molto, cioè ci si cammina in giro, ma è un misto tra dei trampoli e un costume di carnevale. Ma come vale per i Google Glass, a importare non è il prodotto in sé, ma ciò che la tecnologia che sta dietro il prodotto promette. L'immaginario che è in grado di evocare. E come i Glass, anche il Powered Jacket è un prodotto decisamente cyberpunk nella sua estetica distopicamente futuristica.
Fino a quest'anno la tecnologia di consumo ha attraversato una lunga fase in cui hanno prevalso miniaturizzazione e portabilità (dai laptop agli smartwatch). Eppure quella degli esoscheletri non è affatto una tecnologia invisibile, è anzi molto ben visibile. Tuttavia, gli esoscheletri per il grande pubblico sono ancora una semplice curiosità. Non hanno né una vera utilità né, soprattutto, un vero mercato di possibili consumatori.
Oltre alle performance artistiche di soggetti come Stelarc, il campo della ricerca su questi artefatti ha coinvolto, fino ad oggi, le ricerche sulle protesi mediche e quelle per un eventuale uso militare. Soldati e handicappati, insomma. Attraverso un esoscheletro molte persone sulla sedia a rotelle potrebbero riprendere a camminare. Attraverso un'esoscheletro si potrebbe aumentare la capacità di compiere sforzi, come per esempio il sollevare pesi e sostenere fatiche prolungate.
La ricerca sugli esoscheletri è principalmente una parte della robotica, ma comprende anche un lato più fashion, ovvero quello delle robot suit, tute robot, veri e propri esoscheletri indossabili, il cui esempio più famoso, per quanto tratto dalla finzione, è l'esemplare indossato da Robert Downey Jr. in Iron Man, ma c'è almeno un altro esempio tratto dal mondo reale, HAL. Eppure, secondo me, un vero esoscheletro possiede quel fascino demodé che supera in stile le modaiole robo-tute.
Questo tipo di artefatti è stato fino ad ora prodotto solo in forma di prototipo da centri di ricerca (o da artisti o da militari), mentre quello di Sagawa Electronics è il primo esoscheletro progettato per l'utente generico (non solo freak, supersoldati e disabili). Verrò commercializzato sotto forma di giocattolo costoso, ma forse tra qualche hanno e qualche upgrade vedrete pure qualcuno andarci al lavoro.
Giambattista De Cornelio
L'esoscheletro costa all'incirca 120.000€, ma da quello che ho capito la spesa serve a finanziare le ricerche successive. Gli esemplari in vendita sono 5. Il costo non è eccessivo, sempre meno di una piccola isola o di un viaggio spaziale, se siete i tipi da potervi permettere questo genere di cose.
Il dispositivo, in realtà, non sembra fare poi molto, cioè ci si cammina in giro, ma è un misto tra dei trampoli e un costume di carnevale. Ma come vale per i Google Glass, a importare non è il prodotto in sé, ma ciò che la tecnologia che sta dietro il prodotto promette. L'immaginario che è in grado di evocare. E come i Glass, anche il Powered Jacket è un prodotto decisamente cyberpunk nella sua estetica distopicamente futuristica.
Fino a quest'anno la tecnologia di consumo ha attraversato una lunga fase in cui hanno prevalso miniaturizzazione e portabilità (dai laptop agli smartwatch). Eppure quella degli esoscheletri non è affatto una tecnologia invisibile, è anzi molto ben visibile. Tuttavia, gli esoscheletri per il grande pubblico sono ancora una semplice curiosità. Non hanno né una vera utilità né, soprattutto, un vero mercato di possibili consumatori.
Oltre alle performance artistiche di soggetti come Stelarc, il campo della ricerca su questi artefatti ha coinvolto, fino ad oggi, le ricerche sulle protesi mediche e quelle per un eventuale uso militare. Soldati e handicappati, insomma. Attraverso un esoscheletro molte persone sulla sedia a rotelle potrebbero riprendere a camminare. Attraverso un'esoscheletro si potrebbe aumentare la capacità di compiere sforzi, come per esempio il sollevare pesi e sostenere fatiche prolungate.
La ricerca sugli esoscheletri è principalmente una parte della robotica, ma comprende anche un lato più fashion, ovvero quello delle robot suit, tute robot, veri e propri esoscheletri indossabili, il cui esempio più famoso, per quanto tratto dalla finzione, è l'esemplare indossato da Robert Downey Jr. in Iron Man, ma c'è almeno un altro esempio tratto dal mondo reale, HAL. Eppure, secondo me, un vero esoscheletro possiede quel fascino demodé che supera in stile le modaiole robo-tute.
Questo tipo di artefatti è stato fino ad ora prodotto solo in forma di prototipo da centri di ricerca (o da artisti o da militari), mentre quello di Sagawa Electronics è il primo esoscheletro progettato per l'utente generico (non solo freak, supersoldati e disabili). Verrò commercializzato sotto forma di giocattolo costoso, ma forse tra qualche hanno e qualche upgrade vedrete pure qualcuno andarci al lavoro.
Giambattista De Cornelio
domenica 14 luglio 2013
La Grandiosa Favola dei Robottoni - Recensione di Pacific Rim
Ieri sera sono andato a vedere il nuovo supercolossal Pacific Rim. Era da parecchio che non andavo al cinema, eppure Pacific Rim è uno di quei film che deve essere visto al cinema, poiché la maestosità della messa in scena necessita uno schermo di grosse dimensioni, come di grosse dimensioni sono le due entità che caratterizzano il film: i Kaiju, creature aliene di lovecraftiana fattura, e gli Jaeger, robottoni umanoidi a energia atomica controllati da un tandem di umani in comunione neurale.
Il gigantismo delle proporzioni e l'iperbolica scala dell'azione sono le vere leve su cui si gioca la potenza e la godibilità del film. Intere navi vengono usate come mazze in scene maestose dove la figura umana scompare nella sua piccolezza. La bravura di Guillermo Del Toro è infatti quella di saper gestire le sequenze caratterizzate dalle grosse dimensioni di Kaiju e Jaeger e quelle che invece ritraggono la più piccola e delicata scala degli eventi umani.
La vicenda
La vicenda si basa su di un'idea semplice e neppure così originale: un mostro gigante e un robot gigante che si menano di brutto. Eppure Del Toro da quest'idea tira fuori tutte le conseguenze del caso, traducendole in lunghe, epiche, per non dire sublimi, sequenze di combattimento tra il campione-robot di turno e la sua controparte Kaiju, animalesca e aliena.
L'aspetto della sceneggiatura è ridotto all'osso. Ma in questo caso si può dire che less is more, poiché il mancato approfondimento della psicologia dei personaggi si traduce a tutto vantaggio di scene d'azione massive e sinesteticamente coinvolgenti (davvero belli sono colonna sonora ed effetti). L'impostazione fumettistica nel tratteggiare personaggi e situazioni rende il film godibile senza che i limiti di interpretazione causino delle cadute di stile a livello drammaturgico. A parte le scene più sentimentali, Pacific Rim ha davvero poche pause. La buona riuscita e il divertimento che suscita sono dovuti, oltre che all'azione, a un efficacie, per quanto semplice, intreccio di trame e sottotrame, capaci di svelare particolari importanti nel caratterizzare universo e personaggi, senza appesantire l'azione con inutili spiegoni.
Quello di Pacific Rim, come nota The Verge, è un universo lineare, di facile accessibilità, è per questo che manca una vera e propria parte introduttiva. Gli spettatori sanno quello che devono sapere, il resto si capisce veloce. La peculiarità di questa fiaba sci-fi è la sua capacità di integrarsi perfettamente in un immaginario condiviso tra mondo occidentale e orientale. Il film infatti si inserisce in questo filone di megamostri nati dall'immaginazione giapponese dopo le distruzioni apocalittiche delle bombe nucleari. Godzilla, i robot dei manga anni '80, i Tranformer: questo è l'orizzonte culturale del film, decisamente arricchito dalla capacità visionaria di Del Toro (di cui ricordo il bellissimo, seppure imperfetto, Labirinto del Fauno).
Implicazioni geopolitiche
La situazione politica e sociale è appena tratteggiata da poche scene, ma in questo mondo così simile al nostro - siamo nel 2020 - troviamo un'umanità piegata dai continui attacchi dei Kaiju, dove le condizioni economiche premono per un sempre più intenso sfruttamento del lavoro. Il muro che viene costruito per arginare i Kaiju è l'unico elemento su cui si giocano le decisioni dei leader mondiali, che non sembrano molto simpatici né lungimiranti. Come il film ci mostra, il muro non risulterà molto inutile. Il messaggio è chiaro, il muro è l'oscurantismo, il muro è simbolo della divisione. E il film non solo ci dice che i muri sono sbagliati, ma che sono pure inefficaci.
Gli Jaeger sono infatti figli di un programma globale, che riunisce i mezzi delle singole nazioni. L'umanità si trova unità a tifare per i super robot nei loro agonici scontri con i titanici Kaiju. Ma perché queste mostruose creature vengono sulla terra (attraverso un ponte multidimensionale il cui accesso è collocato in fondo all'oceano pacifico)? Perché sono predatori di mondi e attraverso l'inquinamento l'umanità ha tragicamente reso adatta la Terra a queste spaventose creature. Molto evocativo, no?
Gli Jaeger sono infatti figli di un programma globale, che riunisce i mezzi delle singole nazioni. L'umanità si trova unità a tifare per i super robot nei loro agonici scontri con i titanici Kaiju. Ma perché queste mostruose creature vengono sulla terra (attraverso un ponte multidimensionale il cui accesso è collocato in fondo all'oceano pacifico)? Perché sono predatori di mondi e attraverso l'inquinamento l'umanità ha tragicamente reso adatta la Terra a queste spaventose creature. Molto evocativo, no?
La tecnologia è, poi, uno degli elementi salvifici di questo film. Con tutta la potenza del mito della macchina, assieme a una passione per la meccatronica, gli Jaeger sono la metafora di una tecnica buona, capace di proteggere e non solo soggiogare l'essere umano.
Il legame tra gli esseri umani è la scintilla capace di animare e dirigere la mastodontica complessità delle macchine. La stretta di mano neurale, ovvero la simbiosi delle menti per una coordinato controllo dello Jaeger, è quell'elemento umano irriducibile che rende Pacific Rim un film a suo modo ottimista nei confronti dei valori e delle capacità umane.
Il legame tra gli esseri umani è la scintilla capace di animare e dirigere la mastodontica complessità delle macchine. La stretta di mano neurale, ovvero la simbiosi delle menti per una coordinato controllo dello Jaeger, è quell'elemento umano irriducibile che rende Pacific Rim un film a suo modo ottimista nei confronti dei valori e delle capacità umane.
Una fiaba per il XXI secolo
Pacific Rim è senza dubbio un film divertente e ben costruito. Mi sembra davvero più leggero e meno banale di opere come Avatar e molto più intelligente di cose come i Tranformers. Del Toro così ci dimostra che un film d'azione può essere ben costruito e allo stesso tempo intelligente senza dover piegarsi a un realismo innaturale per il genere.
Ma ciò che mi ha più colpito è la meraviglia che il film è capace di suscitare, meraviglia per le scene di combattimento (perfette e maestose), ma anche per i robot (bellissimo quello dei russi) e per i Kaiju, così spaventosi e affascinanti. Mi ha colpito questo passaggio nella recensione del film di Annalee Newitz:
Ma ciò che mi ha più colpito è la meraviglia che il film è capace di suscitare, meraviglia per le scene di combattimento (perfette e maestose), ma anche per i robot (bellissimo quello dei russi) e per i Kaiju, così spaventosi e affascinanti. Mi ha colpito questo passaggio nella recensione del film di Annalee Newitz:
"Pacific Rim è una fiaba per questa epoca globale. Come tutte le fiabe, ha un semplice messaggio che riguarda il lavorare assieme per affrontare i pericoli. Ma è anche una specie di allegoria per quei problemi che l'umanità sta affrontando in questo XXI secolo, ovvero il riscaldamento globale e i disastri naturali la cui risoluzione trascende i tradizionali confini tra le nazioni, che, prese singolarmente, risultano impotenti."In conclusione, da Pacific Rim ti aspetti robot che esplodono, città distrutte e tante mazzate. Ed è proprio ciò che ottieni. Onesto, non delude per nulla mantenendo tutte le promesse. Di sicuro è un film che da bambino mi sarebbe piaciuto moltissimo.
Carlo Peroni
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martedì 11 giugno 2013
Google Glass: tra realtà aumentata e società del controllo
Non passa giorno senza che mi capiti di intercettare qualche notizia sull’ultimo giocattolo di Mountain View, i Glass di Google. Spesso si tratta di qualcosa riguardo alle caratteristiche tecniche oppure, invece, qualche celebrità minore che ha avuto la fortuna di testare in anteprima le funzioni degli occhiali. Come beta tester ci stanno quelle della moda e svariati maschi bianchi, ma, io mi chiedevo, cosa ne penserebbe Marshall McLuhan?
Che sia in una direzione o in un altra, Google si appresta dunque a entrare a gamba tesa nella centenaria evoluzione di un particolare artefatto, le lenti. Lenti e occhiali svolgono a tutti gli effetti una funzione di archetipo all’interno della collezione degli oggetti artificiali creati dall’uomo. Essi sono i primi esempi di media trasparenti, ovvero attraverso cui si vede il mondo stesso e non solo una sua rappresentazione. Anche se in realtà ciò che la realtà aumentata ci promette è avere qualcosa in più dalle nostre percezioni ordinarie (e non solo qualcosa di radicalmente diverso come la realtà virtuale).
La vista, inoltre, è la modalità sensoriale che più ha ricevuto una ristrutturazione cognitiva da parte della tecnologia. L’osservazione empirica, alla base della rivoluzione scientifica, ha dato il via, inoltre, alla verifica delle conoscenze attraverso l’esperienza diretta. Galileo adattò il cannocchiale olandese - lo rubò, dicono alcuni - per meglio osservare i fenomeni celesti, scoprendo quelle irregolarità - i crateri lunari, le fasi di Venere e i satelliti di Giove - che accorciavano la distanza tra cielo e terra.
In questo panorama di eccitazione pseudofantascientifica per il nuovo dispositivo, Google ha presentato nel corso degli ultimi mesi vari video per mostrare il funzionamento del suo giocattolo, riuscendo a creare, attraverso una notevole campagna di comunicazione, una spasmodica attesa in ogni entusiasta tecnologico e una certa curiosità su e giù per la rete. Gli occhiali sembrano essere, in breve, una device che ha lo scopo di integrare i vari servizi Google in una interfaccia indossabile. Di seguito naturalmente ne verrà una scia di potenziali App prodotte da terzi.
Gli occhiali sono, però, un artefatto antico e Google, dopo aver ridefinito il concetto di mappa con Maps, si misura ancora una volta con la tradizione. Si tratta di capire se tutto l'immaginario evocato da tecnologie tipo i Glass stia attualizzando una Distopia da società del controllo di tipo orwelliano oppure, invece, se verrà privilegiata qualche altra direzione.
Le funzioni che vengono introdotte dal dispositivo appartengono a due macrocategorie: realtà aumentata e registrazione audio-video. La prima rappresenta un ambito mediamente futuristico, l’altro è già presente a livello massivo nel nostro tormentato panorama mediale. Sarà da capire se gli occhiali, una volta adottati da un’ampia comunità di utenti, porteranno una più spinta accelerazione verso la registrazione minuto per minuto della vita degli utenti dal loro stesso punto di vista oppure se, invece, verranno maggiormente utilizzate le applicazioni di realtà aumentata che interagiscono con l'ambiente circostante, come già accade con i QR code o alcune forme di pubblicità.
Certo gli occhiali di Google, insieme alla diffusione di dispositivi di sorveglianza fissi - telecamere - o mobili - come i droni -, rappresentano un ulteriore deciso passo verso la distopia del controllo, dove potenzialmente tutti vedono e sono visti, una sorta di ultraparanoica spy story collettiva.
Dispositivi come i Google Glass sono, dunque, il passo fatale dell’invasione tecnologica della vita privata, nel senso di una registrazione in prima persona di tutto ciò che è visto da un individuio? Sarà qualcosa di simile al 3° episodio della prima stagione di Black Mirrors? Oppure sarà il trionfo della realtà aumentata, nel senso di una gamification iper-capitalistica di ogni azione quotidiana?
Sight è un cortometraggio che racconta l'uso di una tecnologia sulla linea di quello che dovrebbe essere tra una decina d'anni quella introdotta dai Glass.
Che sia in una direzione o in un altra, Google si appresta dunque a entrare a gamba tesa nella centenaria evoluzione di un particolare artefatto, le lenti. Lenti e occhiali svolgono a tutti gli effetti una funzione di archetipo all’interno della collezione degli oggetti artificiali creati dall’uomo. Essi sono i primi esempi di media trasparenti, ovvero attraverso cui si vede il mondo stesso e non solo una sua rappresentazione. Anche se in realtà ciò che la realtà aumentata ci promette è avere qualcosa in più dalle nostre percezioni ordinarie (e non solo qualcosa di radicalmente diverso come la realtà virtuale).
Gli occhiali sono anche uno dei primi e storici esempi di protesi tecnologica che rappresenta un primo passo verso la trasformazione medica degli esseri umani in cyborg, ovvero individui tecnologicamente aumentati. Bisogna aspettare in che modo il dispositivo di Google si intreccerà alla vita quotidiana, se nel senso di un’estremizzazione di un processo già in atto come il moltiplicarsi d foto e video amatoriali, oppure nel senso di una scoperta di nuovi territori e aggiunte ludiche. A proposito di aggiunte ludiche, oltre a Google ci sono altri sviluppatori che sono al lavoro su qualcosa di simile. Gli occhiali che trovate nel video sembrano essere, infatti, ancora più ambiziosi dei Glass, in quanto hanno il fine di rendere possibile la manipolazione diretta di oggetti tridimensionali. Il progetto meta 1 è finanziabile su Kickstarter:
La storia della tecnologia che sta dietro ai Google Glass e ad artefatti simili, dunque, impatta direttamente e simbolizza quella evoluzione dell’immaginario tecnologico che si muove contraddittoriamente tra Utopia e Distopia. Un mondo dove tutto è registrato da una molteplicità di dispositivi sembra tracciare nuovi fenomeni paranoici di sorveglianza. Ma, se seguiamo il percorso di Google, ci rendiamo conto che la società che ha inventato il famoso motore di ricerca ha il potere di disinnescare almeno all'apparenza le conseguenze collaterali dovute alla diffusione della sua tecnologia e dei suoi prodotti. Non ha caso la gente si preoccupa più della propria privacy riguardo a Facebook, piuttosto che a Gmail. Anche se forse il caso Prism ha rimesso mano alla questione.
Dall'altro lato, comunque i Glass promettono una evasione dalla percezione ordinaria e una fusione cognitiva e, forse, spirituale con le nostre interfacce. Staremo a vedere che uso faremo di questa tecnologia, o forse, piuttosto, l'uso che questa tecnologia farà di noi.
Carlo Peroni
@freakycharlie
Dall'altro lato, comunque i Glass promettono una evasione dalla percezione ordinaria e una fusione cognitiva e, forse, spirituale con le nostre interfacce. Staremo a vedere che uso faremo di questa tecnologia, o forse, piuttosto, l'uso che questa tecnologia farà di noi.
Carlo Peroni
@freakycharlie
lunedì 10 giugno 2013
Il Mondo delle Cose. Per una critica degli artefatti
Gli oggetti ci parlano. Come le nazioni e i popoli, gli oggetti hanno una storia. E la storia degli oggetti è spesso trasversale alla storia delle nazioni e a quella dei popoli.
Ogni cultura crea i suoi artefatti, non solo opere d'arte ma oggetti di uso comune. Non solo nuovi artefatti, ma famiglie intere di dispositivi che sembrano evolvere come se fossero parte di una specie vivente. Automobili, macchine fotografiche, computer. Non sono forse ormai parte della nostra storia naturale? Le tecnologie obsolete come le pellicole delle macchine fotografiche analogiche, le musicassette, le macchine da scrivere non sono come fossili del nostro immaginario post-moderno? Una delle migliori metafore di Marshall McLuhan a proposito dice:
"sul piano fisiologico, l’uomo è perpetuamente modificato dall’uso normale della tecnologia (o del proprio corpo variamente esteso) e trova a sua volta modi sempre nuovi per modificarla. Diventa insomma, per così dire, l’organo sessuale del mondo della macchina, come lo è l’ape per il mondo vegetale: gli permette il processo fecondativo e l’evoluzione di nuove forme."
Gli artefatti sono di molteplici tipologie. Essi fanno parte del cosiddetto "mondo delle cose", che, in quanto creato dall'uomo, si distingue in realtà dal mondo naturale. Mentre, infatti, quest'ultimo è segnato dalla necessità e da un certo determinismo dovuto a fisica, chimica e biologia, il primo, il mondo delle cose, è caratterizzato, dalla possibilità, ovvero dalla meravigliosa indeterminatezza dei fatti umani.
La facoltà umana più interessante è la capacità di creare nuove tipologie di artefatti. L'uomo, infatti, ha sempre creato nella sua storia oggetti capaci di integrarsi nelle pratiche di vita già esistenti. Dalla seconda guerra mondiale in poi, inoltre, gli oggetti prodotti dall'uomo si sono moltiplicati su immensa scala, coprendo l'intero globo di dispositivi alimentati dal sistema elettrico.
Insieme a questo processo di evoluzione tecnologica è avvenuta una continua modificazione dei sistemi simbolici. Osservare come i vari artefatti, i loro sistemi e le loro interazioni producono ambienti e situazioni relazionali inedite in una comunità, può mostrare qualcosa di nuovo rispetto a quello che si sapeva già. Gli artefatti vanno criticati. Gli artefatti ci parlano, bisogna ascoltare il loro discorso. Ascoltare il discorso della tecnica e della tecnologia.
Il mondo formato dall'uomo e dalle sue protesi tecnologiche, fino ad arrivare alla mega-macchina teorizzata da Mumford, ha creato un suo proprio sistema simbolico, che si scontra con i sistemi simbolici che abbiamo ereditato dalle culture passate. L'epoca industriale della tecnica e della riproduzione seriale ha scavato nell'immaginario, creando delle culture e pratiche condivise che hanno come riscritto il sistema operativo dell'umanità.
Il futuro ci parla. Il futuro è già tra noi, ma non è equamente distribuito, per dirla con William Gibson. Il mondo ci parla, sotto la sua nuova forma dell'ubiquità delle reti informative. E le reti informative non sono solo semplici artefatti, ma complesse ecologie cognitive artificiali.
La storia degli artefatti che una società produce è una storia affascinante, che ci aiuta a capire non solo la nostra tecnologia, ma anche e soprattutto il nostro immaginario, la nostra cultura, i nostri sogni e desideri.
Carlo Peroni
@freakycharlie
Carlo Peroni
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