Sulle mie bacheche social si è scatenata una tempesta di rabbia e indignazione per il servizio "folkloristico" che mette in dubbio - in un modo certamente inqualificabile - l'utilità dello sforzo sia economico (risorse e tempo impiegato) sia l'effettiva sensatezza scientifica della missione. Pensavo che fosse una cosa passeggera, un piccolo innocente flame come ce ne sono tanti altri. E invece no. La cosa non è passeggera.
Naturalmente anch'io penso che il servizio sia una cialtronata totale e per primo, l'altro giorno, mi sono emozionato seguendo in diretta lo storico evento, l'ho commentato sui social e ho condiviso la gioia di tutti quanti.
Ma l'indignazione è una cosa seria. E non ho capito tutta questa ondata di odio. Sarà una cosa dei social, mi dicevo. Il servizio è davvero un bersaglio facile, immediato, ottimo per un po' di caciara. Poi ne ha scritto anche Wired, dando una sorta di legittimità alla polemica sterile e prendendo le difese della Scienza con la S maiuscola contro l'oscurantismo di stampo medievale. Ma perché indignarsi? Sparare a zero sul tg4, poi, non è così complicato. Che so, se la stessa cosa fosse finita - non diciamo il Wall Street Journal o l'Economist - ma sul tg di la7 o il tg1 o Repubblica il problema sarebbe stato più grave. Ma il tg4? Ma davvero c'è qualcuno che guarda questo tipo di informazione in buona fede (perdonate il gioco di parole) aspettandosi un'informazione competente ed equilibrata?
Secondo me chi si è arrabbiato sul serio sta soffiando sul fuoco sbagliato. Almeno ci mettesse un po' di ironia. Perché una volta seppellita l'ascia di guerra, il servizio è anche, a modo suo, divertente, buffo, cialtronescamente birbante: fa ridere. Di sicuro non un attacco - efficace - alla Scienza e alla Ricerca e all'Esplorazione Spaziale con tutte le maiuscole che volete.
Poi il dibattito su quanto è giusto spendere per l'esplorazione spaziale, invece che per risolvere i problemi del pianeta è una cosa seria che sta proprio a tutto un altro livello (disclosure: io sono MOLTO a favore dell'esplorazione spaziale e ci butterei MOLTI più soldi). Ma in questo caso non credo che il tg4 sia un interlocutore credibile.
Forse è più facile indignarsi per una Cazzata con la C maiuscola che non cambia la realtà dei fatti, piuttosto che cercare di capirli davvero, i fatti? Forse non stanno facendo tutti il gioco dell'oscurantismo, quello vero, indignandosi per questa roba da due soldi invece che leggersi - per esempio - i tanti articoli interessanti che spiegano quello che c'è da sapere sulla missione di Rosetta?
@freakycharlie
Visualizzazione post con etichetta informazione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta informazione. Mostra tutti i post
venerdì 14 novembre 2014
#CometLanding: in difesa del TG4
Etichette:
CometLanding,
comunicazione,
ESA,
giornalismo,
informazione,
infotainment,
Philae,
Rosetta,
tecnologia,
tg4
mercoledì 4 settembre 2013
Una media company per il ventunesimo secolo. Il caso betaworks
Qualche giorno fa, ho scritto di Dots, un gioco per iOS e Android davvero minimale ma estremamente curato. L'applicazione mi ha colpito per svariate ragioni, oltre alla sua indubbia piacevolezza videoludica.
Ho iniziato, dunque, a chiedermi chi ci potesse essere dietro qualcosa di così ben progettato. Dopo una breve ricerca ho trovato non solo la risposta alla mia domanda, ma qualcosa di più.
Quello che ho trovato è un'idea, un progetto, addirittura una visione inedita in spirito tecnocapitalista del mondo online e di quello offline.
A new medium company
Dots è stato sviluppato da betaworks, compagnia tech con sede a New York. Betaworks ha un claim affascinante: a new medium company (che poi da altre parti diventa un altrettanto accattivante a company for builders). La compagnia, una specie di ibrido tra fondo di investimento e incubatrice di start-up, si mostra sapientemente al mondo esterno come un grosso ed eclettico studio web.
Il gruppo che sta dietro a Dots in realtà si pone come ambizioso obbiettivo quello di ridefinire dalle fondamenta il concetto di media company per adattarlo alle esigenze e alle dinamiche del 21esimo secolo.
Siamo a New York, non a Los Angeles, la cura per i dettagli lo dimostra. Se volete sapere di un'altra figura di primo piano della scena tech newyorkese leggetevi questo bel pezzo di Manuel Peruzzo sul fondatore di Tumblr, David Karp. Come nota Peruzzo, le webcompany della grande mela stanno assumendo uno stile peculiare, più raffinato e sfaccettato rispetto alla mitologia libertaria e vagamente utopistica della Silicon Valley californiana. Di Tumblr, infatti, betaworks è stata una tra i primi finanziatori, anche se ha ceduto le sue quote nel contesto dell'acquisizione di Yahoo.
I brillanti dipendenti di betaworks sono al lavoro su molteplici fronti. Per fare alcuni esempi, oltre a Dots e a Tumblr, ci sono Giphy, un motore di ricerca per GIF; Poncho, un'applicazione per le previsioni del tempo e Telecast che raggruppa i video di YouTube in base agli interessi dell'utente.
Poi c'è Tapestry, un'applicazione per creare testi su Ipad; Instapaper, che sarebbe un cosiddetto read-it-later, ovvero un tool per salvare contenuti di cui disporre offline. Per non parlare di Digg, un aggregatore di news che ha avuto il suo periodo di notorietà. Passato l'hype è stato comprato per 500,000$ dal gruppo che l'ha prontamente utilizzato come testa di ponte per entrare nell'arena degli RSS reader, apertasi dopo che un gigante come Google ha deciso di uscire di scena.
Secondo il CEO, John Borthwick, il futuro del mercato dell'informazione si snoda attraverso quattro principali esigenze del lettore/fruitore: discovery, saving, slow reading e fast reading. Betaworks sta cercando di assumere sempre più rilevanza strategica per soddisfare ognuno di questi aspetti. Non dimentichiamoci poi che tra i prodotti fa la sua comparsa anche bit.ly, servizio di url shortening che permette di monitorare la diffusione dei vari contenuti postati dal creatore degli stessi.
Senza troppi clamori betaworks si è dunque guadagnata pezzo per pezzo un ruolo importante nella gestione, condivisione e diffusione di news e contenuti di vario genere ( a proposito del ruolo editoriale del gruppo sul web, questo articolo di mashable mi è piaciuto tantissimo anche per come dipinge il ciclo di vita delle news online: The Company That's Buying the Online News Ecosystem).
Siamo a New York, non a Los Angeles, la cura per i dettagli lo dimostra. Se volete sapere di un'altra figura di primo piano della scena tech newyorkese leggetevi questo bel pezzo di Manuel Peruzzo sul fondatore di Tumblr, David Karp. Come nota Peruzzo, le webcompany della grande mela stanno assumendo uno stile peculiare, più raffinato e sfaccettato rispetto alla mitologia libertaria e vagamente utopistica della Silicon Valley californiana. Di Tumblr, infatti, betaworks è stata una tra i primi finanziatori, anche se ha ceduto le sue quote nel contesto dell'acquisizione di Yahoo.
I brillanti dipendenti di betaworks sono al lavoro su molteplici fronti. Per fare alcuni esempi, oltre a Dots e a Tumblr, ci sono Giphy, un motore di ricerca per GIF; Poncho, un'applicazione per le previsioni del tempo e Telecast che raggruppa i video di YouTube in base agli interessi dell'utente.
Poi c'è Tapestry, un'applicazione per creare testi su Ipad; Instapaper, che sarebbe un cosiddetto read-it-later, ovvero un tool per salvare contenuti di cui disporre offline. Per non parlare di Digg, un aggregatore di news che ha avuto il suo periodo di notorietà. Passato l'hype è stato comprato per 500,000$ dal gruppo che l'ha prontamente utilizzato come testa di ponte per entrare nell'arena degli RSS reader, apertasi dopo che un gigante come Google ha deciso di uscire di scena.
Secondo il CEO, John Borthwick, il futuro del mercato dell'informazione si snoda attraverso quattro principali esigenze del lettore/fruitore: discovery, saving, slow reading e fast reading. Betaworks sta cercando di assumere sempre più rilevanza strategica per soddisfare ognuno di questi aspetti. Non dimentichiamoci poi che tra i prodotti fa la sua comparsa anche bit.ly, servizio di url shortening che permette di monitorare la diffusione dei vari contenuti postati dal creatore degli stessi.
Senza troppi clamori betaworks si è dunque guadagnata pezzo per pezzo un ruolo importante nella gestione, condivisione e diffusione di news e contenuti di vario genere ( a proposito del ruolo editoriale del gruppo sul web, questo articolo di mashable mi è piaciuto tantissimo anche per come dipinge il ciclo di vita delle news online: The Company That's Buying the Online News Ecosystem).
Crea, compra, finanzia.
Mentre colossi come facebook hanno un corebusiness ben definito, betaworks presenta un insieme di servizi autonomi l'uno dall'altro. Pur non rappresentando un ecosistema integrato come quello di Google, ogni prodotto di betaworks ha il suo ruolo strategico per il gruppo e la compagnia è come un puzzle dove ogni pezzo si incastra perfettamente.
Fondata nel 2008 la compagnia si presenta così nel database di Techcrunch: "A tightly linked network of ideas, people, capital, products and data brought together in imaginative ways to build out a more connected world". Il tono è leggermente entusiastico ma i contenuti sono accattivanti. Si va anche più nel concreto, trovando risposte a domande come: quanto investe betaworks? Secondo quali modalità e criteri? Che tipo di persone cercano?
L'investimento tipico si aggira tra i 150,000-200,000$. L'azienda in cui si investe deve essere una start-up ad alto contenuto di innovazione con un prototipo realmente funzionante del proprio tool/servizio. Nessuna idea o progetto in astratto: l'azienda sottolinea di essere una powerpoint-free zone.
In una sua dichiarazione di intenti l'azienda afferma che il tipo di persona che cerca è qualcuno interessato a sviluppare più idee, piuttosto che portarne avanti, per anni, una soltanto: "We attract the kind of people who could start their own company, but they don’t necessarily want to run a company. They’d rather be the co-founder of eight things than tied down for years as the sole founder of one. They’d rather build".
Si tratta dunque di una realtà complessa, dinamica e sfaccettata. Per il CEO di betaworks andare a fare la spesa significa comprare la start-up che più gli aggrada in quel periodo. The Verge riassume la strategia di business di betaworks in build, buy, invest.
Il blog dell'azienda a proposito afferma che l'azienda crea, finanzia e acquisisce altre compagnie più piccole. Ognuna di queste tre attività permette all'azienda di sperimentare ampliando il proprio network. Nella sua -breve- storia, betaworks ha finanziato, acquisito o creato quasi 100 compagnie più piccole.
Fondata nel 2008 la compagnia si presenta così nel database di Techcrunch: "A tightly linked network of ideas, people, capital, products and data brought together in imaginative ways to build out a more connected world". Il tono è leggermente entusiastico ma i contenuti sono accattivanti. Si va anche più nel concreto, trovando risposte a domande come: quanto investe betaworks? Secondo quali modalità e criteri? Che tipo di persone cercano?
L'investimento tipico si aggira tra i 150,000-200,000$. L'azienda in cui si investe deve essere una start-up ad alto contenuto di innovazione con un prototipo realmente funzionante del proprio tool/servizio. Nessuna idea o progetto in astratto: l'azienda sottolinea di essere una powerpoint-free zone.
In una sua dichiarazione di intenti l'azienda afferma che il tipo di persona che cerca è qualcuno interessato a sviluppare più idee, piuttosto che portarne avanti, per anni, una soltanto: "We attract the kind of people who could start their own company, but they don’t necessarily want to run a company. They’d rather be the co-founder of eight things than tied down for years as the sole founder of one. They’d rather build".
Si tratta dunque di una realtà complessa, dinamica e sfaccettata. Per il CEO di betaworks andare a fare la spesa significa comprare la start-up che più gli aggrada in quel periodo. The Verge riassume la strategia di business di betaworks in build, buy, invest.
Il blog dell'azienda a proposito afferma che l'azienda crea, finanzia e acquisisce altre compagnie più piccole. Ognuna di queste tre attività permette all'azienda di sperimentare ampliando il proprio network. Nella sua -breve- storia, betaworks ha finanziato, acquisito o creato quasi 100 compagnie più piccole.
Un CEO che ci sa fare
La politica di betaworks non esclude, ma anzi mette preventivamente in conto possibili fallimenti, che devono essere però limitati e metabolizzati velocemente. Si lavora su molteplici fronti, non uno soltanto, e non si ha paura di tagliare i rami secchi, abbandonando i progetti che non funzionano. Betaworks può permettersi di uccidere un proprio tool, poiché i suoi investimenti sono molteplici e non solo vincolati ad un unico prodotto.
Betaworks, come è cosa comune per i grossi nomi del web, ha portato avanti una serie di importanti acquisizioni volte più a incamerare know-how piuttosto che a cercare di monetizzare direttamente l'investimento. Tutto ciò ha reso l'azienda uno dei protagonisti della scena tech newyorchese e non solo. Betaworks è una compagnia al centro della app revolution che si annovera tra le aziende di innovazione che stanno aspettando il proprio momento di ribalta nel ciclico avvicendarsi dei top player del settore. Di sicuro propone un modello di business allo stesso tempo solido e innovativo.
Celebri soni diventate le lettere di inizio anno agli azionisti, scritte dal CEO, in cui viene eloquentemente presentato il modo in cui l'azienda vede se stessa e il campo in cui opera. Le lettere sono disponibili e rappresentano una lettura interessante per chi è interessato all'evoluzione del mercato dei servizi online.
Betaworks, come è cosa comune per i grossi nomi del web, ha portato avanti una serie di importanti acquisizioni volte più a incamerare know-how piuttosto che a cercare di monetizzare direttamente l'investimento. Tutto ciò ha reso l'azienda uno dei protagonisti della scena tech newyorchese e non solo. Betaworks è una compagnia al centro della app revolution che si annovera tra le aziende di innovazione che stanno aspettando il proprio momento di ribalta nel ciclico avvicendarsi dei top player del settore. Di sicuro propone un modello di business allo stesso tempo solido e innovativo.
Celebri soni diventate le lettere di inizio anno agli azionisti, scritte dal CEO, in cui viene eloquentemente presentato il modo in cui l'azienda vede se stessa e il campo in cui opera. Le lettere sono disponibili e rappresentano una lettura interessante per chi è interessato all'evoluzione del mercato dei servizi online.
5. Un modello da imitare?
Le basi ci sono, il capitale anche. Ma c'è, soprattutto, un'idea, una visione di insieme che vede Betaworks giocare un'importante ruolo nel ridefinire ciò che si può fare della tecnologia.
Ma potrebbe essere la scena tech di New York un buon modello per le realtà italiane che vogliono investire in tecnologia e servizi per il web?
Città come Milano potrebbero rappresentare un buon terreno di coltura, dato il buon numero di start-up attive. Sia mai che qualche investitore avesse l'illuminazione di raggrupparne alcune. Magari si potrebbe tirar fuori qualche opportunità di business facendo confluire una manciata di realtà interessanti. Come betaworks ha dimostrato, una buona acquisizione può dimostrarsi più geniale di un'idea partorita in proprio.
Forse il quadro che ho dipinto è fin troppo roseo e sopravvaluto il buon esito di una possibile applicazione di un tale modello nel contesto del nostro paese. Tuttavia, betaworks mi sembra portatrice di un nuovo tipo di approccio. Certo un approccio di stampo capitalista, ma di un capitalismo reso forse un poco più umano per l'essersi totalmente immerso nell'oceano della comunicazione digitale.
Forse il quadro che ho dipinto è fin troppo roseo e sopravvaluto il buon esito di una possibile applicazione di un tale modello nel contesto del nostro paese. Tuttavia, betaworks mi sembra portatrice di un nuovo tipo di approccio. Certo un approccio di stampo capitalista, ma di un capitalismo reso forse un poco più umano per l'essersi totalmente immerso nell'oceano della comunicazione digitale.
Carlo Peroni
@freakycharlie
PS: Tutti i link sparsi nell'articolo li trovate meglio ordinati (più qualche aggiunta) nella lista appositamente creata grazie al nuovo e bellissimo servizio offerto da urli.st - dateci un occhio se avete segnalibri e preferiti vari sparsi in giro da sistemare e condividere. Io l'ho trovato davvero utilissimo!
PS: Tutti i link sparsi nell'articolo li trovate meglio ordinati (più qualche aggiunta) nella lista appositamente creata grazie al nuovo e bellissimo servizio offerto da urli.st - dateci un occhio se avete segnalibri e preferiti vari sparsi in giro da sistemare e condividere. Io l'ho trovato davvero utilissimo!
Etichette:
app,
Betaworks,
business,
compagnie e organizzazioni,
informazione,
tecnologia
martedì 23 luglio 2013
Una questione di supporti. A proposito di cartaceo e digitale
L'altro pomeriggio non avevo molto da fare (o meglio, avevo da fare ma sono essenzialmente pigro e procrastinatore) così riflettevo sulla spinosa questione eBook/cartaceo. Pur essendo di mio abbastanza "integrato" e favorevole all'innovazione (di solito a prescindere), negli ultimi tempi ho maturato la convinzione che il buon vecchio libro stampato non sia, in tutto e per tutto, sostituibile con la sua controparte digitale.
1. I supporti non sono neutrali
Mi spiego attraverso due considerazioni:
- testi digitali e testi cartacei svolgono funzioni differenti, anche se in parte sovrapponibili;
- il classico libro stampato sta attraversando una ridefinizione del suo ruolo all'interno di una ecologia dei supporti culturali che è venuta facendosi via via più complessa.
Anche se il mercato degli ebook su suolo italiano è ancora in piccole percentuali, ma in costante crescita, il punto è che la parola stampata su carta sta assumendo un ruolo diverso ed è spinta a questo proprio perché "insidiata" dai contenuti free del Web. Con l'avvento della parola su schermo, non ha più senso, molto banalmente, stampare tutto e da ciò ne è seguita la crisi dell'editoria (soprattutto per quanto riguarda giornali e riviste).
Prima ancora dell'inchiostro elettronico e del formato ePub (che è poi figlio dell'HTML), c'erano gli lcd dei laptop ma soprattutto, adesso, ci sono gli schermi interattivi degli smartphone e dei tablet. Internet, sostituendo i quotidiani, ha rilevato queste due categorie giornalistiche:
- notizie/informazioni, ovvero la funzione oggettiva di rendere noti i fatti all'opinione pubblica;
- blogging/opinione/reportage, ovvero la funzione soggettiva di commento in relazione ai fatti, per farli assimilare dall'opinione pubblica.
I prodotti che comprendono il racconto di finzione e la saggistica per ora sembrano aver resistito alla completa digitalizzazione, poiché i loro schemi sono ancora tipicamente cartacei e, quando li troviamo in digitale, sono spesso delle semplici traduzioni di supporto e non format nativi.
2. La parola stampata è l'unico posto dove le informazioni stanno ferme
I generi - i format - sono già cambiati e prima la funzione che era propria della parola stampata, per quando riguardo gli ambiti di news e opinione, è già stata trasferita al web alle app. Tutto questo ha anche conseguenze positive nel senso che la funzione della parola stampata si è come liberata da un certo dovere di coprire adeguatamente l'attualità fugace del presente immediato. Esattamente come quando la fotografia ha liberato la pittura dalla sua funzione di rappresentazione realistica.
Tutto questo ha stimolato il dibattito riguardo al ruolo dell’informazione nella società contemporanea e la velocità attraverso cui viene gestita. Eppure in questo contesto in continuo mutamento in cui l’informazione si muove alla velocità della luce per tutto il globo, spesso ci si dimentica che il libro stampato è appunto l’unico posto dove la parola si ferma e le informazioni si cristallizzano per essere più facilmente interpretate. In questo processo di accelerazione, il mondo della cultura e quello dell’intrattenimento sono profondamente cambiati. E di conseguenza è cambiato anche il mondo dell’editoria. Non bisogna però dimenticare che il format del quotidiano cartaceo e la sua capacità di coprire l'attualità creando, di fatto, un'opinione pubblica è stato reso possibile da un'altra rivoluzione nel mondo dei mezzi di comunicazione: quella del telegrafo e della sua capacità di trasmettere messaggi e notizie a una nuova scala di velocità.
3. Libri ed editori
Anche oggi un testo viene pensato, da chi lo scrive, per il suo supporto. Ogni scrittura ha un suo format, una sua destinazione che ne influenza lo schema e lo stile. Ma scrivere un libro sapendo che sarà soltanto digitale permette paradossalmente una maggiore libertà rispetto alla "rigidità" del testo stampato.
Il mondo dell’editoria è un mondo complicato. La differenza la fanno editori ed editor. Questi sono i ruoli fondamentali di una casa editrice. L’editore, quello vero, è uno strano personaggio che compie delle complicate acrobazie per rimanere in equilibrio, come sospeso, tra il mondo della cultura e quello del prodotto commerciale di intrattenimento. Di fondamentale importanza poi è il lavoro svolto dall’editor, che rivede il testo insieme all’autore per trovare i punti deboli e dare al tutto una degna proporzione di insieme.
La scelta di un testo da parte dell'editore e la revisione dell'editor sono i due servizi che permettono a un libro di uscire degnamente sul mercato. Ci sono ottimi esempi nel caso delle autopubblicazioni, ma sono ancora eccezioni. Sono convinto, infatti, che nel campo degli ebook il meglio debba ancora venire. Siamo ancora nella fase in cui nel nuovo media vengono tradotti i contenuti che stavano in quello precedente. E il meccanismo del manoscritto-editor-libro pubblicato è un modello che viene dal cartaceo.
L’editore, oggi, non può competere nella guerra della velocità, ma deve concentrarsi sul valore dei testi. In un mondo dove chiunque, se ne ha tempo e voglia, ha la possibilità di produrre e vendere il suo romanzo attraverso i canali digitali, il ruolo dell’editore è quello di selezionare e, ancora, selezionare.
Il processo che porta dalla scrittura alla pubblicazione di un romanzo o un saggio è spesso un percorso dai tempi decisamente lunghi rispetto alla velocità cui ci si riferiva poco sopra. L’editore deve essere visto dunque come colui che rallenta il flusso informativo, selezionando le opere che hanno le caratteristiche di essere pubblicate.
Le occasioni per leggere di sicuro non sono diminuite ma, anzi, si sono moltiplicate da quando l’accessibilità offerta dal Web ha permesso agli utenti di costruire dei percorsi di lettura personalizzati attraverso blog e social network. Cartaceo e digitale non sono in contraddizione, ma semplicemente le due facce di una stessa medaglia.
Carlo Peroni
Etichette:
artefatti,
digitale,
editoria,
informazione,
tecnologia
giovedì 23 maggio 2013
Filtri platonici e caverne informative
L’altro giorno uno scambio di tweet con quelli di Faretesto, di cui apprezzo molto i link condivisi e la loro misteriosa aura da ghostwriter, mi ha fatto pensare alle bolle informative nella prospettiva del mito della caverna di origine platonica.
Il mito della Caverna è una delle tipiche cose che ti spacciano come pillole di filosofia tagliata male. Eppure più gli anni passano, più quel mito resiste e mi sembra avere una sua consistenza.
Una bolla informativa o filter bubble (vedi Wikipedia o anche questo post, sull'inventore del termine, Eli Pariser) è, invece, quel fenomeno per cui quando leggiamo notizie e commenti su Internet, i sistemi e le piattaforme che usiamo abitualmente filtrano, su base algoritmica, le notizie in base ai nostri comportamenti precedenti. Facebook, ad esempio, ci mostra più spesso gli aggiornamenti delle persone e delle pagine con cui abbiamo più frequenti interazioni. Credo poi sia noto a tutti, inoltre, come Google mostri risultati diversi a persone diverse in base a ciò che i suoi sistemi sanno di noi. Molti dei siti che visitiamo su Internet, infatti, a differenza, per esempio, di un qualsiasi quotidiano cartaceo, si presentano in modo anche radicalmente differente a seconda dell’utente, operando una personalizzazione automatica che è al di fuori del nostro controllo.
Semplificando, il rischio è che i vari servizi ci mostrino solo quello che più ci piace, dando preferenza a quei contenuti che confermano la nostra visione del mondo. Forse Internet, paradossalmente, sta facendo in modo che sia più difficile cambiare idea.
Si tratta di un eccesso di libertà di informazione?
Internet ha aperto dei mondi nuovi, ma poi ha iniziato a modellare quei mondi attorno ai suoi utenti, favorendone forse i vizi più che le virtù? E che c’entra la caverna? Il mito platonico racconta di questi uomini che vivono in una caverna dalla nascita, legati, con alle spalle loro spalle un fuoco.
La percezione della realtà di questi poco fortunati individui si limita dunque solo alle ombre che vedono proiettate sulle pareti della caverna. Alla fine uno di loro, mi sembra, riesce a uscire dalla caverna, ma ha problemi con la luce del sole – metafora della vera conoscenza – perché non l’ha mai vista prima e non la riconosce per quello che è.
Quella descritta da Platone è una realtà davvero molto limitata, a pensarci. Gli abitanti della caverna non sanno neanche di essere dentro una caverna e pensano che ciò che esiste al mondo siano solo quelle ombre sul muro. Neanche conoscono il fuoco, perché in questo esperimento mentale il fuoco è dietro di loro e quindi non ne hanno mai avuto esperienza diretta.
Il mito platonico ben si adattò quindi a tecnologie come fotografie e film e a tutto ciò che più o meno viene venduto come civiltà dell’immagine.
Cambiare idea su qualcosa è già difficile, figuriamoci la nostra visione del mondo, l’atteggiamento che abbiamo nei confronti della vita, dell’universo e di tutto quanto. Sicuramente meno stressante ricevere notizie che confermino la nostra visione del mondo, anche se inesatta o parziale.
Con Internet siamo entrati dunque in un’altra caverna, una caverna personalizzata per ciascuno, dove forse si sta più comodi e rilassati rispetto alla versione platonica, perché qui ognuno ha almeno la sensazione di scegliersela a sua misura, la caverna. A ciascuno la sua bolla, ma anche se la bolla dove state è abbastanza comoda, non è detto che scoppiarla sia un male.
Come trovare l’uscita della caverna dunque, direte voi. Nietzsche vi risponderebbe qualcosa del tipo che dietro ogni caverna ci sta un’altra caverna. A differenza della versione platonica un uscita non c’è e quando si riesce a uscire da una caverna spesso bisogna entrare in un’altra caverna, che può addirittura essere meno comoda e magari anche un po’ umida.
Etichette:
filosofia,
filter bubble,
informazione,
Mito della Caverna,
Nietzsche,
Platone,
realtà
Iscriviti a:
Post (Atom)