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martedì 11 giugno 2013

Google Glass: tra realtà aumentata e società del controllo

Non passa giorno senza che mi capiti di intercettare qualche notizia sull’ultimo giocattolo di Mountain View, i Glass di Google. Spesso si tratta di qualcosa riguardo alle caratteristiche tecniche oppure, invece, qualche celebrità minore che ha avuto la fortuna di testare in anteprima le funzioni degli occhiali. Come beta tester ci stanno quelle della moda e svariati maschi bianchi, ma, io mi chiedevo, cosa ne penserebbe Marshall McLuhan?

In questo panorama di eccitazione pseudofantascientifica per il nuovo dispositivo, Google ha presentato nel corso degli ultimi mesi vari video per mostrare il funzionamento del suo giocattolo, riuscendo a creare, attraverso una notevole campagna di comunicazione,  una spasmodica attesa in ogni entusiasta tecnologico e una certa curiosità su e giù per la rete. Gli occhiali sembrano essere, in breve, una device che ha lo scopo di integrare i vari servizi Google in una interfaccia indossabile. Di seguito naturalmente ne verrà una scia di potenziali App prodotte da terzi.



Gli occhiali sono, però, un artefatto antico e Google, dopo aver ridefinito il concetto di mappa con Maps, si misura ancora una volta con la tradizione. Si tratta di capire se tutto l'immaginario evocato da tecnologie tipo i Glass stia attualizzando una Distopia da società del controllo di tipo orwelliano oppure, invece, se verrà privilegiata qualche altra direzione.



Le funzioni che vengono introdotte dal dispositivo appartengono a due macrocategorie: realtà aumentata e registrazione audio-video. La prima rappresenta un ambito mediamente futuristico, l’altro è già presente a livello massivo nel nostro tormentato panorama mediale. Sarà da capire se gli occhiali, una volta adottati da un’ampia comunità di utenti, porteranno una più spinta accelerazione verso la registrazione minuto per minuto della vita degli utenti dal loro stesso punto di vista oppure se, invece, verranno maggiormente utilizzate le applicazioni di realtà aumentata che interagiscono con l'ambiente circostante, come già accade con i QR code o alcune forme di pubblicità. 



Certo gli occhiali di Google, insieme alla diffusione di dispositivi di sorveglianza fissi - telecamere - o mobili - come i droni -, rappresentano un ulteriore deciso passo verso la distopia del controllo, dove potenzialmente tutti vedono e sono visti, una sorta di ultraparanoica spy story collettiva.



Dispositivi come i Google Glass sono, dunque, il passo fatale dell’invasione tecnologica della vita privata, nel senso di una registrazione in prima persona di tutto ciò che è visto da un individuio? Sarà qualcosa di simile al 3° episodio della prima stagione di Black MirrorsOppure sarà il trionfo della realtà aumentata, nel senso di una gamification iper-capitalistica di ogni azione quotidiana?



Sight è un cortometraggio che racconta l'uso di una tecnologia sulla linea di quello che dovrebbe essere tra una decina d'anni quella introdotta dai Glass.




Che sia in una direzione o in un altra, Google si appresta dunque a entrare a gamba tesa nella centenaria evoluzione di un particolare artefatto, le lenti. Lenti e occhiali svolgono a tutti gli effetti una funzione di archetipo all’interno della collezione degli oggetti artificiali creati dall’uomo. Essi sono i primi esempi di media trasparenti, ovvero attraverso cui si vede il mondo stesso e non solo una sua rappresentazione. Anche se in realtà ciò che la realtà aumentata ci promette è avere qualcosa in più dalle nostre percezioni ordinarie (e non solo qualcosa di radicalmente diverso come la realtà virtuale). 
La vista, inoltre, è la modalità sensoriale che più ha ricevuto una ristrutturazione cognitiva da parte della tecnologia. L’osservazione empirica, alla base della rivoluzione scientifica, ha dato il via, inoltre, alla verifica delle conoscenze attraverso l’esperienza diretta. Galileo adattò il cannocchiale olandese - lo rubò, dicono alcuni - per meglio osservare i fenomeni celesti, scoprendo quelle irregolarità - i crateri lunari, le fasi di Venere e i satelliti di Giove - che accorciavano la distanza tra cielo e terra.

Gli occhiali sono anche uno dei primi e storici esempi di protesi tecnologica che rappresenta un primo passo verso la trasformazione medica degli esseri umani in cyborg, ovvero individui tecnologicamente aumentati. Bisogna aspettare in che modo il dispositivo di Google si intreccerà alla vita quotidiana, se nel senso di un’estremizzazione di un processo già in atto come il moltiplicarsi d foto e video amatoriali, oppure nel senso di una scoperta di nuovi territori e aggiunte ludiche. A proposito di aggiunte ludiche, oltre a Google ci sono altri sviluppatori che sono al lavoro su qualcosa di simile. Gli occhiali che trovate nel video sembrano essere, infatti, ancora più ambiziosi dei Glass, in quanto hanno il fine di rendere possibile la manipolazione diretta di oggetti tridimensionali. Il progetto meta 1 è finanziabile su Kickstarter:


La storia della tecnologia che sta dietro ai Google Glass e ad artefatti simili, dunque, impatta direttamente e simbolizza quella evoluzione dell’immaginario tecnologico che si muove contraddittoriamente tra Utopia e Distopia. Un mondo dove tutto è registrato da una molteplicità di dispositivi sembra tracciare nuovi fenomeni paranoici di sorveglianza. Ma, se seguiamo il percorso di Google, ci rendiamo conto che la società che ha inventato il famoso motore di ricerca ha il potere di disinnescare almeno all'apparenza le conseguenze collaterali dovute alla diffusione della sua tecnologia e dei suoi prodotti. Non ha caso la gente si preoccupa più della propria privacy riguardo a Facebook, piuttosto che a Gmail. Anche se forse il caso Prism ha rimesso mano alla questione. 

Dall'altro lato, comunque i Glass promettono una evasione dalla percezione ordinaria e una fusione cognitiva e, forse, spirituale con le nostre interfacce. Staremo a vedere che uso faremo di questa tecnologia, o forse, piuttosto, l'uso che questa tecnologia farà di noi.

Carlo Peroni
@freakycharlie

martedì 22 gennaio 2013

Una macchina più umana: "1984" e il Macintosh



Ricorre oggi l’anniversario dello storico spot della Apple andato in onda il 22 gennaio 1984 durante il XVIII Superbowl. Il computer, caratterizzato dall’innovativa GUI, Graphic User Interface, era il pioniere di un nuovo modo di intendere l’interazione uomo-macchina. Non più le scomode istruzioni sulla linea di comando del terminale, ma un nuovo e più intuitivo modo di gestire metafore digitali di oggetti più conosciuti, come cartelle e scrivanie: il Macintosh dava inizio a una nuova era dove il computer diventava user friendly al pari di qualsiasi, più umile elettrodomestico. Diventava a disposizione di tutti l’immensa possibilità operativa delle general purpose machine. La macchina si liberava dalla sua specializzazione per trovarsi di colpo proiettata nell’instabile mondo degli affari umani.

Ci trovavamo a tutti gli effetti davanti a due filosofie, quella della GUI e quella della CLI, la più tradizionale Command Line Interface. Puristi contro fricchettoni, bambini che giocano contro razionalissimi ingegneri. Apple scelse la carta del nuovo medium colorato e non specializzato, dando il via a generazioni di smanettoni non tecnici, che, nutriti da sempre più cangianti pacchetti Adobe con cui raggiungere nuove vette nel fotoritocco, cercavano di costruire nuove realtà, fino ad anelare al miraggio delle nuove realtà virtuali. Ma la macchina non sostituisce il mondo, lo scimmiotta e basta. Lo spot dell’84 andava in onda sul vecchio medium, la televisione, durante uno degli eventi con più spettatori. Una buona cassa di risonanza, insomma. La televisione, nel pieno di quegli anni ’80 come lei così passivi-aggressivi, lanciava il media che ne metteva in discussione i presupposti, la macchina interattiva universale.



Il riferimento culturale non poteva essere dei più ambiziosi, quel “1984” di Orwell che si presentava come la distopia per eccellenza, un mondo grigio e omologato dove la gente, attraverso una diffusa programmazione neolinguistica che estirpava vocaboli e concetti dalla multidimensionalità risonante del linguaggio umano, si vedeva sempre meno general purpose e sempre più specializzata, come le vecchie macchine che il Macintosh prometeva di sostituire. Così Apple ci prometteva la liberazione, un mondo casual di soggettività che troverà il suo Eldorado nell’ottimo clima della California del sud.

Quella dei computer è la storia di una macchina che si avvicina all’essere umano, che lo asseconda, che si insinua nelle sue attività sociali trasformando la percezione che abbiamo della realtà sociale, anche soltanto della sua porzione a noi più prossima. Oggi la querelle filosofica tra GUI e CLI sembra qualcosa che va bene per i nostalgici degli anni ’90, mentre invece siamo al centro di un’altra rivoluzione che ha prodotto nuovi artefatti che si possono riassumere nella sigla UMC, Ubiquitous Mobile Computing. Macchine interattive nelle tasche di chiunque, con sensori e un’incredibile e diffusa capacità di calcolo. Leggere i dati, soprattutto quelli grandi, i Big Data, diventerà probabilmente una nuova forma, più oggettiva forse, di divinazione. Quella del Macintosh era una promessa troppo alta da mantenere, era un sogno, una visione. Oggi la società del controllo dipinta in “1984” ce la abbiamo davanti, giusto un po’ più colorata, casual e interattiva.