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giovedì 9 ottobre 2014

Endgame, solo un libro o l'apocalisse in realtà aumentata?

Some of what I'm about to say is real information. And some of it is not.
La fine sta per cominciare. Ma tranquilli, è solo un gioco. O qualcosa di più di un gioco. In realtà è anche un libro. E un contest. Forse non c'è poi da stare così tranquilli. Forse non è solo un gioco. Forse sarà l'operazione crossmediale definitiva. Anche se in fondo potrebbe trattarsi solo di un flop.

Procediamo con ordine. È uscito Endgame. La prima domanda a cui rispondere sarebbe: che cos'è Endgame?
  • Un libro
  • un videogioco in realtà aumentata
  • un concorso con premio finale di 500.000 in (sì, esatto!) gettoni d’oro.
Il tutto mi ricorda vagamente il romanzo cyberdistopico di Neal Stephenson Snow Crash, in cui lo Snowcrash era una religione, una droga, un virus informatico. Nonché l'adorato e fondamentale Ready Player One, per la storia del contest (come ha fatto notare Jaime D'Alessandro su Repubblica). Però, quasi dimenticavo, Endgame sarà anche un film, prodotto da 20 Century Fox.

Il romanzo è scritto da James Frey insieme a Nils Johnson-Shelton ed è un pippone Young Adult a sfondo catastrofico e complottista con teenager assassini. Una specie di via di mezzo tra Il Pendolo di Facault e un film a caso sui supereroi. Abbastanza il mio genere.



Frey è la persona adatta perché sa come rendere fragili i confini tra realtà e finzione. O almeno gli è già successo. Il suo libro del 2003, Un Milione di Piccoli Pezzi (consigliato) venne presentato dalla stampa americana come le memorie del soggiorno in clinica di un alcolizzato in riabilitazione. Il tutto raccontato in prima persona in uno stile diretto come un pugno nello stomaco. Davvero un libro interessante. Estremo. Impossibile da ignorare. Ma pieno. Pieno anche di quelle cazzo di frasi brevissime che quasi ti trasmettono spasmi nervosi e odio. A non tutti piace.

Oprah ha intervistato Frey in una leggendaria puntata del suo show in cui si è dimostrata offesissima perché aveva contribuito al successo del libro presentandolo come una storia vera e invece si trattava, per la maggior parte, di pura finzione. Orrore orrore. Si è sentita truffata, e con lei milioni di telespettatori pronti a odiare e maledire il cattivo Frey. Il bugiardo Frey, manipolatore della povera Oprah in buona fede. Riuscite a vedere la sottile ironia del tutto?

A parte che davvero non so quanto la cosa sia spontanea o meno (qui un video dove i due si incontrano anni dopo e riparlano della vicenda ) però ha certamente quel fascino tutto della nostra epoca quando non si capisce se una cosa è vera o finta. I fake (o gli hoax) sono un sottogenere tutto particolare, ma quello di Un Milione di Piccoli Pezzi non è stato proprio un fake. Se mai una mistificazione, una bugia a fin di bene. Almeno il bene delle tasche di Frey: il libro è diventato un caso letterario anche per la sua vicenda mediatica. Ciò non toglie che è un gran bel libro. Ma i media hanno questo potere. Si chiama mistificazione. Ma per tornare a Endgame, credo che un po' di mistificazione sia più che legittima quando è fatta a fin di bene.

E con buona pace di Kant, l'intrattenimento è una cosa fottutamente seria e qua oltre a Frey ci sono in ballo i tizi di Ingress e, quindi, Google. Si tratta di giocare al complotto avendo come Dungeon Master una delle corporation con le implicazioni più distopiche che esista. Forse la cosa più eccitante per i nerd del globo dai tempi di X-Files. Purtroppo l'applicazione di realtà aumentata non è stata lanciata insieme al libro ma arriverà più avanti. Oprah in questo caso non si è però indignata.


Per il momento la prima parte del "gioco", oltre al puzzle nascosto nel libro, si trova sul sito ancientsocieties.com, in cui appare per la prima volta anche Stella (Haley Webb), il personaggio che accompagnerà la storia di Endgame nei suoi risvolti multimediali per i prossimi anni (sono previsti altri due libri e altri due contest).

Le ambizioni sono alte e la macchina messa in moto davvero cazzuta. Endgame vuole essere il concept d'intrattenimento definitivo, azzardando il più ambizioso tra gli ibridi, quello tra libro e videogioco. Quello che Frey e Google e un po' di altra gente stanno offrendo è un immersione mediatica che infrange le barriere tra mondo reale, mondo virtuale e opera di finzione. Un gioco di ruolo su molti livelli davvero sofisticato e, soprattutto, insidioso da gestire per i suoi creatori.

Frammenti dell'universo di Endgame sono sparsi in giro per internet (canali youtube, pagine web, account twitter misteriosi) e alcuni di essi sono attivi da diversi mesi, senza che nulla avrebbe potuto connetterli direttamente all'operazione in precedenza. Ma ora i puntini verranno uniti. I pezzi del puzzle accostati. La caccia al tesoro è iniziata.

Le ultime news e un breve riassunto del tutto lo trovate in questo articolo di The Verge.

Se anche voi pensate di giocare o semplicemente seguire la vicenda di Endgame scrivetemi cosa ne pensate qua sotto o su twitter o anche su Google Plus.

giovedì 12 settembre 2013

Perché si dice "villaggio globale"?

In questi anni di tumulti digitali e superaziende alla ricerca della nuova rivoluzione nel campo dei media, spesso si sente l'espressione "villaggio globale" per indicare la condizione attuale del nostro mondo postmoderno fittamente interconnesso.

Come in un villaggio, infatti, tutti sanno tutto di tutti, così le nostre reti di comunicazione sono in grado di trasportare le informazioni da una parte all'altra del globo a una velocità approssimabile a quella della luce. Internet è profondamente pettegolo e totalmente responsabile dello stravolgimento del nostro concetto di prossimità: prossimo non è più sinonimo di vicino, poiché la comunicazione a distanza in tempo reale ha decisamente contratto le distanze.

L'espressione di "villaggio globale" si deve a Marshall McLuhan, che la introdusse già a partire dai suoi libri di inizio anni '60 (The Gutenberg Galaxy, 1962, e Understanding Media, 1964) per poi svilupparla in altri titoli, come War and Peace in the Global Village (1968) e il postumo The Global Village: Transformations in World Life and Media in the 21st Century (1989).

A partire dal suo mantra il medium è il messaggio, è ben nota la capacità di McLuhan di inventare formule retoriche in grado di lavorare come sonde esplorative per capire la galassia dei nostri sistemi di comunicazione. Anche se leggermente demodée, la metafora del "villaggio globale" è ancora ampiamente utilizzata. L'origine dell'espressione, ci ricorda Eric McLuhan, figlio di Marshall, si deve a una rielaborazione di concetti già presenti in Joyce e Windham Lewis, in particolare quest'ultimo scrisse in America and The Cosmic Man (1949): "the earth has become one big village, with telephones laid on from one end to the other, and air transport, both speedy and safe..."

Lewis e McLuhan erano amici e probabilmente discussero insieme di questi argomenti. Tuttavia lo sfondo teorico in cui si inquadra la metafora di villaggio globale è decisamente mcluhaniano.



"Villagio globale" è dunque una fortunata etichetta per indicare la contrazione della comunità umana dovuta all'azione avvicinatrice dei media elettrici. Questo processo inizia con l'invenzione del telegrafo e continua fino ai giorni nostri con l'evoluzione delle reti globali di comunicazione e l'uso massivo di social network.

Anche se la metafora è di comune utilizzo, il suo significato ha delle profonde conseguenze filosofiche. Per comprendere queste conseguenze è necessario fare un passo indietro di un paio di millenni fino all'Aristotele della Politica.

In questo libro, il filosofo greco cerca di inquadrare i principi che regolano il comportamento delle comunità umane, indagandone forme e modalità. Aristotele ha una preferenza per la forma organizzativa della città (che in greco si dice, appunto, polis), la più perfetta delle comunità umane.

La famiglia è la prima comunità umana che, per natura, si costituisce per la vita di tutti i giorni. Il villaggio, derivato dall’unione di più famiglie, sorge per "soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero". E, infine:
"La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama livello di autosufficienza"
Questo attributo di autosufficienza è molto importante: 
"Nell’ordine naturale la città precede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede necessariamente la parte, perché tolto il tutto, non ci sarà più né piede né mano, se non per omonimia. Dunque è chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo perché, se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti"
Il villaggio globale è dunque una nuova forma estesa che caratterizza la comunità umana. La teoria aristotelica punta sull'indipendenza della forma-città, mentre il villaggio è visto come una comunità imperfetta proprio in quanto non autosufficiente. Ma è proprio il processo di globalizzazione che permette di rivalutare positivamente (a differenza di Aristotele) l'interdipendenza delle comunità umane l'una dall'altra.

La città è stata per parecchi secoli la massima espressione in cui si organizzavano le comunità umane. Ma la forma-città si è ora come sciolta nel mare delle comunicazione istantanea e della velocità dei trasporti. La metafora del "villaggio globale" rappresenta dunque l'abbandono di un modo di concepire le comunità umane che, come abbiamo visto, risale fino all'epoca classica della filosofia greca.

Carlo Peroni