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venerdì 14 novembre 2014

#CometLanding: in difesa del TG4

Sulle mie bacheche social si è scatenata una tempesta di rabbia e indignazione per il servizio "folkloristico" che mette in dubbio - in un modo certamente inqualificabile - l'utilità dello sforzo sia economico (risorse e tempo impiegato) sia l'effettiva sensatezza scientifica della missione. Pensavo che fosse una cosa passeggera, un piccolo innocente flame come ce ne sono tanti altri. E invece no. La cosa non è passeggera.

Naturalmente anch'io penso che il servizio sia una cialtronata totale e per primo, l'altro giorno, mi sono emozionato seguendo in diretta lo storico evento, l'ho commentato sui social e ho condiviso la gioia di tutti quanti.

Ma l'indignazione è una cosa seria. E non ho capito tutta questa ondata di odio. Sarà una cosa dei social, mi dicevo. Il servizio è davvero un bersaglio facile, immediato, ottimo per un po' di caciara. Poi ne ha scritto anche Wired, dando una sorta di legittimità alla polemica sterile e prendendo le difese della Scienza con la S maiuscola contro l'oscurantismo di stampo medievale. Ma perché indignarsi? Sparare a zero sul tg4, poi, non è così complicato. Che so, se la stessa cosa fosse finita - non diciamo il Wall Street Journal o l'Economist - ma sul tg di la7 o il tg1 o Repubblica il problema sarebbe stato più grave. Ma il tg4? Ma davvero c'è qualcuno che guarda questo tipo di informazione in buona fede (perdonate il gioco di parole) aspettandosi un'informazione competente ed equilibrata?

Secondo me chi si è arrabbiato sul serio sta soffiando sul fuoco sbagliato. Almeno ci mettesse un po' di ironia. Perché una volta seppellita l'ascia di guerra, il servizio è anche, a modo suo, divertente, buffo, cialtronescamente birbante: fa ridere. Di sicuro non un attacco - efficace - alla Scienza e alla Ricerca e all'Esplorazione Spaziale con tutte le maiuscole che volete.

Poi il dibattito su quanto è giusto spendere per l'esplorazione spaziale, invece che per risolvere i problemi del pianeta è una cosa seria che sta proprio a tutto un altro livello (disclosure: io sono MOLTO a favore dell'esplorazione spaziale e ci butterei MOLTI più soldi). Ma in questo caso non credo che il tg4 sia un interlocutore credibile.

Forse è più facile indignarsi per una Cazzata con la C maiuscola che non cambia la realtà dei fatti, piuttosto che cercare di capirli davvero, i fatti? Forse non stanno facendo tutti il gioco dell'oscurantismo, quello vero, indignandosi per questa roba da due soldi invece che leggersi - per esempio - i tanti articoli interessanti che spiegano quello che c'è da sapere sulla missione di Rosetta?

@freakycharlie

venerdì 11 luglio 2014

Un problema di linguaggio

Forse abbiamo un problema di linguaggio. O di linguaggi. Se i giornali chiudono ma anche l'informazione online non è messa molto bene – per non parlare dell’industria culturale nostrana nel suo complesso - significa che il problema è più profondo. E va al di là di che cosa siano, o non siano, il giornalismo o la cultura. Il problema si nasconde spesso nei tecnicismi linguistici, che in parte riflettono le regole non scritte di ciascuna nicchia di addetti ai lavori. Il problema è soprattutto una questione di comunicazione.

Per usare un caso concreto, prendo spunto da questo tweet di @Tecnoetica:

Il tweet scherza bonariamente sul linguaggio utilizzato durante l'intervento di uno dei partecipanti della conferenza #LucisulLavoro2014. Non ero presente all'evento, ho solo seguito distrattamente il flusso relativo all'hashtag su twitter: nell'intervento in questione si parlava di maker, stampa 3d e nuovi modelli produttivi. Ma, lasciando stare i contenuti specifici, ho scelto questo tweet perché esprime alla perfezone i problemi che ci sono oggi in Italia quando si vuole parlare di innovazione. Si possono individuare tre livelli della questione:
  1. gli specialisti hanno il loro linguaggio, che i "profani" non capiscono;
  2. gli "esperti" (ed è una tendenza che si trova tra la nostra intellighenzia rispetto, per esempio, alla cultura anglosassone, tendono a barricarsi dietro un linguaggio complicato) presentandosi come custodi della conoscenza, piuttosto che come public relation men della stessa;
  3. la lingua italiana, da sola, non basta a descrivere il mondo che ci circonda. Ciò significa che gli esperti fanno prima a prendere in prestito parole dall'inglese, piuttosto che inventarsi termini tecnici equivalenti in italiano;
La soluzione di 1) è che una delle due parti deve imparare il linguaggio dell'altra, oppure elaborare un sistema di significati almeno parzialmente condiviso in cui confrontarsi. E qui entrano in campo giornalisti e divulgatori. La soluzione di 2) è più complicata e riflette anche la feudale gerarchia dei sistemi di potere italiani. La gestione della conoscenza è, a tutti gli effetti, un sistema di potere. Se il giornalismo e l’informazione sono in crisi è anche perché hanno esercitato male il proprio potere. La soluzione di 3) al momento mi è sconosciuta, anche se qualche spunto lo si può trovare in questo articolo di Raf Valvola Scelsi.

E in tutto questo i giornali, e i giornalisti, hanno le loro responsabilità, come evidenziano Tagliablog e Mysocialweb. I giornalisti, infatti, avrebbero dovuto essere non solo i guardiani dei fatti, ma anche i vigili urbani dei significati, e non solo gli uffici stampa di politici e gruppi di interesse. Se abbiamo un problema di linguaggio, è anche perché non abbiamo saputo investire in politiche culturali decenti. La lingua italiana è stata come esaurita da una dozzinalità imperante. E l'informazione online non ha che massimizzato tutto questo. Il risultato è che oggi l’innovazione si pensa in inglese, e su questo c’è poco da fare.

Tornando alla questione dei maker, che secondo me rappresentano una bellissima unione tra innovazione della tecnologia e socializzazione dei processi produttivi: abbiamo gli slogan ma ci mancano i contenuti. Bisogna ripartire dalla scuola e dall'educazione dei più piccoli, nonché da modelli di business sostenibili e non fatti di belle speranze. L'unica cosa sicura, oggi, è che slogan e anglismi non impressionano più nessuno. Non servono più specialisti dell'informazione, ma comunicatori, anzi, usando proprio un anglismo: evangelist. Affinché vincano le buone idee, bisogna almeno sapere come comunicarle.