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venerdì 11 luglio 2014

Un problema di linguaggio

Forse abbiamo un problema di linguaggio. O di linguaggi. Se i giornali chiudono ma anche l'informazione online non è messa molto bene – per non parlare dell’industria culturale nostrana nel suo complesso - significa che il problema è più profondo. E va al di là di che cosa siano, o non siano, il giornalismo o la cultura. Il problema si nasconde spesso nei tecnicismi linguistici, che in parte riflettono le regole non scritte di ciascuna nicchia di addetti ai lavori. Il problema è soprattutto una questione di comunicazione.

Per usare un caso concreto, prendo spunto da questo tweet di @Tecnoetica:

Il tweet scherza bonariamente sul linguaggio utilizzato durante l'intervento di uno dei partecipanti della conferenza #LucisulLavoro2014. Non ero presente all'evento, ho solo seguito distrattamente il flusso relativo all'hashtag su twitter: nell'intervento in questione si parlava di maker, stampa 3d e nuovi modelli produttivi. Ma, lasciando stare i contenuti specifici, ho scelto questo tweet perché esprime alla perfezone i problemi che ci sono oggi in Italia quando si vuole parlare di innovazione. Si possono individuare tre livelli della questione:
  1. gli specialisti hanno il loro linguaggio, che i "profani" non capiscono;
  2. gli "esperti" (ed è una tendenza che si trova tra la nostra intellighenzia rispetto, per esempio, alla cultura anglosassone, tendono a barricarsi dietro un linguaggio complicato) presentandosi come custodi della conoscenza, piuttosto che come public relation men della stessa;
  3. la lingua italiana, da sola, non basta a descrivere il mondo che ci circonda. Ciò significa che gli esperti fanno prima a prendere in prestito parole dall'inglese, piuttosto che inventarsi termini tecnici equivalenti in italiano;
La soluzione di 1) è che una delle due parti deve imparare il linguaggio dell'altra, oppure elaborare un sistema di significati almeno parzialmente condiviso in cui confrontarsi. E qui entrano in campo giornalisti e divulgatori. La soluzione di 2) è più complicata e riflette anche la feudale gerarchia dei sistemi di potere italiani. La gestione della conoscenza è, a tutti gli effetti, un sistema di potere. Se il giornalismo e l’informazione sono in crisi è anche perché hanno esercitato male il proprio potere. La soluzione di 3) al momento mi è sconosciuta, anche se qualche spunto lo si può trovare in questo articolo di Raf Valvola Scelsi.

E in tutto questo i giornali, e i giornalisti, hanno le loro responsabilità, come evidenziano Tagliablog e Mysocialweb. I giornalisti, infatti, avrebbero dovuto essere non solo i guardiani dei fatti, ma anche i vigili urbani dei significati, e non solo gli uffici stampa di politici e gruppi di interesse. Se abbiamo un problema di linguaggio, è anche perché non abbiamo saputo investire in politiche culturali decenti. La lingua italiana è stata come esaurita da una dozzinalità imperante. E l'informazione online non ha che massimizzato tutto questo. Il risultato è che oggi l’innovazione si pensa in inglese, e su questo c’è poco da fare.

Tornando alla questione dei maker, che secondo me rappresentano una bellissima unione tra innovazione della tecnologia e socializzazione dei processi produttivi: abbiamo gli slogan ma ci mancano i contenuti. Bisogna ripartire dalla scuola e dall'educazione dei più piccoli, nonché da modelli di business sostenibili e non fatti di belle speranze. L'unica cosa sicura, oggi, è che slogan e anglismi non impressionano più nessuno. Non servono più specialisti dell'informazione, ma comunicatori, anzi, usando proprio un anglismo: evangelist. Affinché vincano le buone idee, bisogna almeno sapere come comunicarle.

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